Francesco PiccoloNon posso sentirmi in colpa per l’animale maschio, bianco, borghese che mi porto dentro

Lo scrittore e sceneggiatore parla del referendum e dell’idea preoccupante che per ogni cosa debbano esistere solo guelfi e ghibellini. Vale anche per la tendenza dell’intellettuale a occupare il ruolo scontato di difensore delle cause giuste in maniera banale, perché oggi esprimere un’opinione critica o scettica rischia di farlo diventare immediatamente un nemico

Afp

La prima cosa che ci diciamo al telefono è che questa intervista verrà letta mentre tutti saranno in attesa del risultato del referendum e delle regionali e, quindi, si può dire tutto confidando nel fatto che quelli che amano accanirsi sulle parole si accaniranno su altro. E, anzi, chi ha bisogno di nascondere una notizia dovrebbe renderla pubblica proprio mentre attorno sta accadendo qualcosa di più importante: perché non capita più spesso? La scusa per sentire Francesco Piccolo è che il 30 settembre uscirà in sala Lacci, l’ultimo film che ha sceneggiato (assieme a Domenico Starnone, autore del libro e a Daniele Luchetti, regista del film). La situazione delle nostre sale è complicata, dice Piccolo, appena vincitore per la terza volta del David per la miglior sceneggiatura per Il traditore, ma «sono appena stato al cinema a vedere Le sorelle Macaluso e la gente in sala ci va, con la mascherina, ma ci va». Forse, aggiunge, la pandemia potrebbe anche essere l’occasione per valutare il successo di un film non solo con gli incassi – ormai con le vendite dei libri e gli incassi dei film si fa come con lo share in televisione: sono l’unico criterio – ma anche con altri sistemi, a cominciare dalle piattaforme per la visione. 

Sai che quando c’è un referendum non ci si può esimere dalla domanda: cosa hai votato? E cosa ti aspetti accadrà?
Credo, prima di tutto, che stia diventando molto preoccupante l’idea che esistano soltanto guelfi e ghibellini, per ogni cosa. Anche per questo referendum che per me ha due possibilità, entrambe serie e non scandalose. Invece chi vota No dice che le ragioni del Sì sono scandalose. E chi vota Sì dice che il No è scandaloso. Io voto No, ma non penso che chi voti Sì sia un attentatore della Costituzione. Penso soltanto che ci siano buoni motivi per votare No, migliori di quelle per votare Sì.

Perché guardi solo il quesito del referendum. Invece sembra sempre si voti anche per altro.
Il clima è spaventoso. Il fatto che il voto sia anche un voto per il governo è sintomo di una deriva che accompagna tutto e tutti. Non solo i politici, ma anche chi si occupa di politica. Invece chi si occupa di politica dovrebbe rimettere le cose sul piano della concretezza. 

E le regionali?
Per quanto riguarda il referendum mi pare che il risultato sia scontato. Le regionali meno, ma non credo saranno comunque determinanti. 

Già a gennaio il voto in Emilia Romagna sembrava nei toni il referendum tra Repubblica e Monarchia. Adesso di nuovo.
Repubblica e monarchia o guelfi e ghibellini, siamo lì: è una distorsione. Parliamo di un referendum che tratta una materia – tagliare il numero dei parlamentari – di cui si discute da settant’anni. In questo caso, secondo me, lo si fa nel modo sbagliato. Ma non credo che il Sì sia assurdo. 

Negli anni scorsi eri più presente nel dibattito politico. Adesso pare che tu abbia scelto una posizione più defilata.
Da quando sono arrivati i Cinquestelle a me sembra di capire molto meno di quello che sta succedendo e se uno capisce poco non deve parlare, o comunque deve parlare di quello che crede di capire. 

Fino a poco tempo fa agli intellettuali era permesso esprimere un’opinione sull’attualità con parsimonia. Adesso, invece, pare che solo il corpo a corpo quotidiano, nei talk show o sui social, sia accettabile se vuoi dimostrare impegno.
L’altra questione che mi fa stare nelle retrovie è che mi sembra, di nuovo, che l’intellettuale abbia quel ruolo un po’ scontato di difendere le cose giuste in maniera banale. E quindi gli intellettuali si carichino la questione dell’emigrazione o la questione femminile in una maniera in cui non si può dirgli che abbiano torto. È evidente a chiunque sia civile che abbiano ragione e, perciò, lo ripetono in una maniera scontata. Si spendono, insomma – e con tutto il rispetto per il fatto che lo facciano – per dire cose che a me sembrano ovvie. Invece io penso che l’intellettuale sia uno che guardi e intervenga per dire qualcosa che faccia riflettere, non per confermare quello che già pensiamo. Ho l’impressione che qui basti dire una cosa contro Salvini, e si diventa gli eroi intellettuali del popolo. Mi sembra troppo poco.

Quello che gli americani chiamano virtue signalling. Ci si accontenta di fare la dichiarazione giusta.
Questo, in America soprattutto, sta diventando anche un pensiero violento: l’idea che esprimere non un’opinione contraria, ma un’idea critica o scettica – si è visto in alcuni giornali – ti faccia diventare immediatamente un nemico. C’entrano molto i social perché i social spingono moltissimo agli schieramenti. Non è colpa dei social in sé, ovviamente, ma dell’uso che ne facciamo. E ritorniamo così alla questione del referendum. Io, invece, non amo mettermi nella scia dello schieramento giusto. O meglio, come cittadino lo faccio volentieri. Ma come intellettuale no. Penso che il ruolo pubblico sia diverso. 

Ci interessiamo al dibattito che avviene negli Stati Uniti, ma se, da una parte, siamo lontani dai rischi, dall’altra – ed è l’aspetto grave – siamo lontani da certe loro conquiste. Posizioni razziste o sessiste qui sono ancora accettate da molti.
Non credo che, per fortuna, siano comunemente accettate. Ed è giusto che vengano combattute. Allo stesso tempo penso che l’Italia, finora, abbia mantenuto un atteggiamento più democratico e problematico rispetto a quanto accade in America. Penso che esprimere delle opinioni giuste possa bastare. Ma non bisogna alzare il livello della violenza, anche verbale, altrimenti si cade nell’autoritarismo, in una sorta di fascismo della posizione etica giusta. Ci si sente portatori di un pensiero che è da imporre assolutamente e, di conseguenza, si hanno atteggiamenti molto netti che, a me, fanno un po’ impressione. 

Sembri più spaventato da chi la pensa come te che da chi la pensa diversamente.
Abbiamo una secolare tolleranza per la scorrettezza che, secondo me, ha un suo grado di civiltà, perché la tolleranza è più evoluta del prendere tutto molto seriamente. Invece credo stia accadendo questo e mi preoccupa. 

Però hanno ragione.
Ma certo che hanno ragione. Ma se l’indignazione etica diventa uno strumento violento, io mi preoccupo molto. Quello che sta succedendo negli Stati Uniti è davvero pericoloso, e in Italia finora siamo stati attenti, ma dobbiamo continuare a esserlo. Per esempio, nessuno può costringermi a provare senso di colpa per quello che sono: una persona, maschio, bianco, borghese, che fa il suo lavoro – nessuno deve provare a farmi sentire in colpa per questo. Non dobbiamo permettere che chi difende diritti sacrosanti diventi violento quanto quelli che li hanno attaccati. Sulla violenza del sentirsi dalla parte giusta si stanno giocando dei cambiamenti che fanno un po’ paura.

La pandemia ha cambiato la società letteraria? Penso anche al mondo dei Festival che avevi tratteggiato così bene nei Momenti Trascurabili Vol. 3.
Sono appena stato al Pordenonelegge e sono stato da poco a Venezia al Festival del Cinema. Da una parte fa tristezza perché ci sono grosse difficoltà sia per il pubblico che per chi partecipa come protagonista. Dall’altra è bello e commovente perché dà la sensazione che tutto continui. Penso che, ostinatamente, tutti cercheranno di fare in modo che non ci sia un cambiamento epocale. Io, per esempio, vado poco in giro aspettando di poter tornare ad andare molto in giro. E credo sia un atteggiamento comune. 

È stato fatto notare che ci sono grandi libri del Novecento che hanno trattato anche gli eventi più tragici, le guerre o la Sho’ah, ma nessuno che abbia trattato la spagnola. Cosa ti aspetti accadrà col Covid-19?
Di libri sulla spagnola ne saranno stati scritti molti, ma forse sono ormai tutti invisibili o dimenticati. (Un libro meraviglioso che ha la spagnola sullo sfondo, senza nemmeno  nominarla, è Mrs. Dalloway di Virginia Woolf) La differenza non sta non tanto nel fatto che ne scriveranno, ma se saranno importanti. Gli americani hanno l’istinto di attaccare frontalmente quello che succede e farne narrazione: il Vietnam o l’11 settembre, per esempio. Noi invece, in Italia, abbiamo un modo più riflessivo, aspettiamo. Però nel dopoguerra abbiamo scritto molti bei libri sulla liberazione e sui partigiani e abbiamo scritto alcuni bei libri sui campi di concentramento, ma se ci ricordiamo di Primo Levi, all’inizio Einaudi non volle pubblicare Se questo è un uomo, perché si disse basta con questi libri sui ritorni dalla prigionia. Poi si è rivista la decisione perché si sono accorti che non era un libro, ma Il libro. Non so se avremo l’atteggiamento del dopoguerra o quello che abbiamo avuto col terrorismo o col rapimento Moro, più attendista, come se bisognasse per forza far passare del tempo tra l’evento e il suo racconto. 

In questi giorni si polemizza col film di Vanzina sul lockdown.
Non me ne sono occupato. Ma, parlando più in generale, le cose vanno viste da lontano, nel tempo. Non ci si può occupare del senso di un libro o di un film, che sia una commedia o un capolavoro, soltanto con l’idea del presente o dell’immediato. Delle cose ci si occupa anche capendo che valore avranno nel tempo. 

Sei tra gli sceneggiatori di Lacci. Tornando al senso di colpa, mi pare ci sia un tratto in comune tra il protagonista del film e quello che avevi scritto nell’Animale che mi porto dentro.
Luchetti ha detto una frase interessante: nei libri di Starnone mi sembra ci sia al centro il senso di colpa, nei libri di Francesco mi pare che il senso di colpa sparisca. Credo che in Lacci ci sia una specie di dialettica tra senso di colpa e mancanza di senso di colpa. E anche una dialettica tra l’essere colpevoli degli eventi della vita e la comprensione umana per gli errori. E questa, penso, sia una delle qualità del film che forse si distanzia di più, com’è doveroso, dal libro. È stato detto da qualcuno che film è un po’ misogino invece a me sembra che il ruolo del protagonista maschile, interpretato da Silvio Orlando e Luigi Lo Cascio, sia quello di una persona discutibile, debole e confusa. E che il film sia poco favorevole a questa figura maschile. 

L’ultima cosa te la chiedo su Momenti Trascurabili Vol. 3. Il libro si apriva con un apologo in cui si discuteva se, nella vita di tutti i giorni, è più giusto pianificare le cose prevedendo un futuro o fare tutto subito perché del domani non c’è certezza. Ha senso viaggiare il più possibile, dice tua moglie nel libro, perché si può morire da un momento all’altro. E, per la stessa ragione, non ha senso pagare la piscina a inizio anno perché non si ha la sicurezza di poterci andare. E allora è meglio pagarla mese per mese. Il nuovo coronavirus ha dimostrato che aveva ragione tua moglie. Io ho passato l’estate a chiedere rimborsi per abbonamenti non pagati. Dalla piscina alla mensa della scuola.
Invece ha dimostrato che pagare la piscina subito è un atteggiamento molto positivo. E, dunque, nonostante la pandemia e, anzi, proprio per la pandemia io continuerei a farlo. È meglio avere i rimborsi dopo. Ma l’idea che in piscina uno ci vada tutto l’anno è un’idea che ci serve in questo momento. È incoraggiante. Ne abbiamo bisogno.