Anno dopo anno cambiano i numeri, non la notizia: molti giovani ricercatori italiani vincono i prestigiosi grant dell’European Research Council (ERC), l’organizzazione dell’UE che finanzia con borse milionarie la ricerca di frontiera a livello europeo, ma in maggioranza finiscono per usarli fuori dai confini nazionali.
Il 3 settembre, infatti, l’ERC ha svelato i vincitori degli Starting Grant 2020, premi che finanziano i migliori progetti di ricerca di chi ha ottenuto il dottorato da 2-7 anni, con borse che arrivano a 1,5 milioni di euro e coprono fino a 5 anni di ricerche. Dei 3.272 progetti presentati ce l’hanno fatta in 436 – appena il 13,3% – e ben 53 grant sono stati accordati a ricercatori italiani, che si sono classificati secondi in Europa per nazionalità dopo i colleghi tedeschi.
Un grande risultato per l’Italia? Sì, ma solo a metà: il paese nel suo insieme si è piazzato al decimo posto perché solo 20 vincitori (i dati non distinguono tra italiani ed europei) l’hanno scelto come base per il proprio progetto. L’Italia registra così un saldo negativo verso l’estero di 33 borse.
Si tratta di un fenomeno, non una sorpresa. Scorrendo i dati contenuti nei comunicati stampa sull’assegnazione degli Starting Grant ERC degli ultimi cinque anni, l’Italia è sempre lì: tra l’ottavo (2017, 2019) e l’undicesimo posto (2016, 2018), mentre i suoi ricercatori si piazzano stabilmente tra il secondo e il terzo, sorpassandosi a vicenda con i colleghi di nazionalità francese.
Dal 2016 a oggi, abbiamo “perso” verso l’estero una media di 23 Starting Grant all’anno, una quota sempre superiore al 50% delle borse vinte da italiani, con punte (nel 2018 e nel 2020) oltre il 60%. Tra i grandi paesi europei con cui possiamo confrontarci, nessuno ha risultati simili. Quest’anno, la Spagna ha “perso”, in proporzione, solo il 17,8% delle borse ottenute dai suoi ricercatori, la Germania il 13,7%. E mentre la Francia è sostanzialmente stabile, altri Paesi attirano cervelli. In Regno Unito, nonostante Brexit, arriveranno 36 borse aggiuntive, più di tutte quelle vinte da britannici, che sono 26. I Paesi Bassi segnano +19, la Svizzera (un paese associato) +24.
Per Luca Carra, Segretario del Gruppo 2003 per la Ricerca Scientifica (l’associazione che riunisce i ricercatori italiani più citati al mondo) e direttore di Scienzainrete, quanto accade con gli Starting Grant è indice «dell’ottima preparazione dei ricercatori, ma probabilmente della bassa capacità delle istituzioni italiane di trattenere i migliori». E ci ricorda che, in generale, chi vince un ERC non decide all’improvviso di fare ricerca fuori dall’Italia: in molti casi si tratta di persone che vivono e lavorano già da tempo all’estero.
Il fenomeno sarebbe quindi, almeno in parte, legato alla migrazione di cittadini altamente qualificati. E se la mobilità è spesso un’opportunità per la ricerca, qui i problemi per l’Italia sono due: la perdita di ottimi giovani ricercatori che non è compensata dall’arrivo di altrettanti colleghi europei e un flusso di Starting Grant che va (quasi) solo verso l’estero. E questo avviene nonostante esistano alcune iniziative ideate per attrarre i vincitori dei diversi tipi di grant ERC, o per preparare potenziali candidati di università italiane.
Dal 2016 esiste il bando del ministero “FARE Ricerca in Italia”, che offre agli ERC grantee che lavorano in Italia un finanziamento aggiuntivo che arriva fino al 20% della borsa europea. Alcune università, dal canto loro, lavorano per reclutare i vincitori di ERC e cercano di dare i mezzi ai propri ricercatori per essere competitivi nel processo di valutazione dei progetti di ricerca. La Statale di Milano, per esempio, finanzia i propri candidati che sono arrivati all’ultima fase della valutazione ERC senza vincere la borsa, offrendogli fondi per la ricerca e rafforzando la loro posizione in vista di una possibile seconda application. E come sottolinea Luca Carra, si dovrebbe investire ulteriormente anche nei grant office, gli uffici delle università che seguono e aiutano i candidati del territorio a prepararsi per vincere i bandi italiani, europei e internazionali. Starting Grant inclusi.
Ma secondo Carra, i motivi per cui non attiriamo ricercatori sono gli stessi per cui li perdiamo: non tanto singole iniziative, ma le lacune del nostro ecosistema accademico e di ricerca che lui individua nella mancanza di finanziamenti e in tanta burocrazia, in un sistema poco flessibile per carriere e stipendi, nonché in una – relativa – mancanza di infrastrutture capaci di fare “massa critica”. In altre parole, laboratori ben finanziati che possano attrarre ricercatori e creare lavoro.
«Investire davvero in ricerca e sviluppo è fondamentale, anche per uscire da questa crisi determinata dal Covid», dice, insistendo sul fatto che dall’attuale livello di investimento – l’1,39% del PIL, secondo i dati 2018 – si dovrebbe arrivare «quantomeno alla media europea del 2%». Un traguardo che sinora non abbiamo avuto l’ambizione di raggiungere, con un obiettivo nazionale fermo all’1,53%. Eppure, qualcosa sta (forse) cambiando.
Lo scorso maggio il Decreto “Rilancio” ha stanziato mezzo miliardo di euro per l’istituzione del Fondo per il trasferimento tecnologico e 1,4 miliardi di euro per le università e gli enti nazionali di ricerca, in parte dedicati all’assunzione di più di 3.000 nuovi ricercatori e al finanziamento con 550 milioni tra 2021 e 2022 del Fondo per gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica (FIRST) per lo sviluppo dei Progetti di rilevante interesse nazionale (PRIN).
Un passo seguito, l’8 settembre, dalla notizia di una possibile svolta che potrebbe arrivare da Next Generation EU. In un’intervista a 24 Mattino, il Ministro dell’università e della ricerca Gaetano Manfredi ha annunciato di aver presentato al Comitato Tecnico di Valutazione, che deve mettere insieme il piano italiano per ottenere i fondi europei per la ripresa, un progetto organico di investimenti in università, diritto allo studio, ricerca e competenze da 15 miliardi. «Che significa cercare di portare l’Italia a quelli che sono gli standard europei», ha detto.
Nel frattempo, si aspetta per l’autunno anche il nuovo Programma nazionale per la ricerca 2021-2027, il documento che dovrà orientare le future politiche di ricerca e innovazione. Nelle slide pubblicate in supporto alla consultazione pubblica che precede la stesura, è presente qualche accenno ai punti deboli del paese. Si notano le disparità territoriali del sistema della ricerca, nonché qualche problema relativo alle infrastrutture: da un’attrattività e un riconoscimento “non ottimali” a questioni di stabilità finanziaria pluriennale, fino allo scarso coordinamento fra gli attori pubblici e privati interessati. E si trovano anche accenni a problematiche che riguardano mobilità e collaborazioni internazionali, i fondi per l’alta formazione, e il basso numero di giovani laureati italiani.
Dato, quest’ultimo, che era considerato un punto debole anche nel Programma nazionale per la ricerca 2015-2020. Un report ISTAT relativo ai dati 2019 indica che la quota di laureati tra i 30-34enni in Italia è del 27,6%: siamo penultimi in Europa, dove la media è del 41,6%. Di quella stessa popolazione è occupato solo il 78,9%: un dato 8,8 punti al di sotto della media UE e che, come ha sintetizzato l’ISTAT, è indice di un mercato del lavoro «che assorbe con difficoltà e lentezza il giovane capitale umano più formato del paese». E a proposito di emigrazione: l’ultimo studio Almalaurea sul profilo dei dottori di ricerca 2019 ha riportato che il 72,7% dei Ph.D. italiani ritiene che per il proprio settore disciplinare ci siano maggiori opportunità lavorative all’estero.