In & OutCome le imprese italiane si preparano a un mancato accordo commerciale tra Unione europea e Regno Unito

Londra è uno dei principali mercati di scambio con l’Italia. Per questo raggiungere un buon patto è di vitale importanza per l’economia del nostro Paese. Che ora pensa già a come promuovere il made in Italy di domani

Martedì 8 settembre è iniziata l’ottava fase di negoziazioni tra il Regno Unito e i 27 Paesi dell’Unione Europea per trovare un punto d’intesa sulla Brexit. Al momento non c’è alcuna certezza circa la possibilità di un accordo formale, e recentemente il negoziatore capo dell’Unione Europea, Michel Barnier, si è detto deluso e preoccupato per la mancanza di progressi in questa direzione, specialmente dopo gli ultimi ripensamenti del governo inglese in materia di politica estera.

Ieri la Commissione europea ha indetto una riunione straordinaria tra il vicepresidente della Commissione Maroš Šefčovič e il cancelliere Michael Gove, al termine della quale ha ribadito che «la tempestiva e completa attuazione dell’accordo di recesso, compreso il protocollo sull’Irlanda/Irlanda del Nord, […] è un obbligo legale. L’Unione europea si aspetta che la lettera e lo spirito del presente accordo siano pienamente rispettati. La violazione dei termini dell’accordo di recesso violerebbe il diritto internazionale, minerebbe la fiducia e metterebbe a rischio i futuri negoziati sulle relazioni in corso».

Attualmente il Regno Unito ha firmato una serie di accordi commerciali con diversi Paesi al di fuori dell’UE nel caso di una Brexit senza accordo, il cosiddetto No Deal. Un mancato accordo con l’Europa vorrebbe dire, per gli Stati Membri, rimettersi collettivamente alle regole e ai dazi dell’Organizzazione Mondiale del commercio, ovvero entrare in un inedito regime di libera concorrenza col resto del mondo che potrebbe avere effetti indesiderati tanto per l’export come per le importazioni da e verso il Regno Unito.

Le tariffe previste per l’Ue hanno un’aliquota media piuttosto bassa (2,8 per cento per i prodotti non agricoli), che tuttavia in alcuni settori come l’automotive e i prodotti lattiero-caseari raggiunge quote piuttosto elevate, rispettivamente del 10 e del 35 per cento. Il governo inglese ha fornito alcuni dettagli in merito alle tariffe che applicherà nei confronti dei paesi con cui non ha raggiunto un accordo commerciale, ma al momento non ci sono indicazioni circa l’Europa, che singolarmente è il più grande partner commerciale del Regno Unito.

Come si colloca l’Italia in questo scenario? «Per il nostro Paese, il cui volume dell’export rappresenta il 35 per cento del Pil, quello col Regno Unito rappresenta un mercato prioritario», dichiara Ferdinando Pastore dell’Ice (Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane), «con un saldo commerciale che per l’Italia è secondo solo a quello con gli Stati Uniti».

Il principale settore a essere coinvolto dalle esportazioni verso il Regno Unito è quello della meccanica, che vale il 20 per cento dell’export nazionale, cui seguono il settore della moda (12 per cento), dell’agroalimentare (11 per cento), delle bevande (5 per cento) e dei prodotti farmaceutici e chimici.

Nel primo semestre del 2020, a fronte di un calo complessivo delle esportazioni del 23 per cento (meno di Francia e Germania), l’interscambio del nostro Paese col Regno Unito ha registrato una contrazione del 15 per cento. Il dato però, precisa ancora Ferdinando Pastore, è al momento da riferirsi più alla pandemia di Covid-19 che alle conseguenze della Brexit.

Ma l’attenzione ora è tutta rivolta al 2021, quando le sorti di tante piccole e medie imprese italiane dipenderanno dall’accordo che l’Unione europea riuscirà a siglare col Regno Unito entro il 31 ottobre di quest’anno. Tuttavia, precisa Fortunato Celi Zullo che ha monitorato la Brexit dagli uffici Ice di Londra, «un accordo non significa tornare allo stato di cose precedente alla Brexit. Anche quando i dazi doganali venissero annullati o ridotti al minimo, ci sono da considerare quelle che in gergo si chiamano “barriere non tariffarie”». Vale a dire la certificazione del prodotto, le norme di sicurezza, i controlli sanitari su alimenti e animali e in sostanza tutto quell’apparato tecnico e burocratico che presiede all’interscambio di merci e che ora potrebbe diventare più difficoltoso.

Anche per questo all’inizio del mese, otto aziende inglesi che si occupano di logistica hanno inviato un documento al governo, indirizzata al cancelliere Michael Gove, in cui hanno chiesto una tavola rotonda con il cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak e il segretario per i trasporti Grant Shapps, per discutere dei problemi legati al trasporto e allo stoccaggio del comparto merceologico.

I loro timori riguardano in particolare i tempi di implementazione dei sistemi IT, otto in tutto, che dovrebbero assicurare la regolarità del flusso di merci con l’entrata in vigore del nuovo regime. Uno di essi in particolare, chiamato Smart Freight (“Trasporto intelligente”), servirà a garantire che i conducenti abbiano tutti i documenti in regola per varcare le frontiere, evitando così che restino fermi ore alle frontiere.

Il governo ha garantito che il software entrerà in vigore entro l’1 gennaio 2021, ma le società vorrebbero accelerare la procedura per avere il tempo di istruire i dipendenti e non doversi trovare a testare il sistema a ridosso delle festività natalizie, il periodo di massima congestione dell’attività logistica.

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