Bloccato, a mezz’aria, mentre sventola due bandierine inglesi. Nella traversata post-Brexit, lo stallo del Regno Unito ricorda un momento iconico della vita precedente – da sindaco liberal di Londra – del premier Boris Johnson: inchiodato a metà lungo una teleferica, ai tempi della candidatura della capitale per ospitare le Olimpiadi 2012. Un meme. Era l’agosto di otto anni fa. Una pandemia dopo, il Regno Unito arranca nelle trattative per divorziare dall’Unione Europea. Un ostruzionismo che ha congelato l’uscita, registrata solo sulle monetine da 50 pence celebrative.
Da aprile, quando sono riprese, le trattative a Bruxelles si sono infrante in una serie di nulla di fatto. Come da copione: dal primo minuto, la saga di Brexit ha alternato false partenze a deragliamenti. A ogni puntata, il capo-negoziatore Michel Barnier perde un po’ di aplomb. Rimprovera la delegazione inglese di star deliberatamente perdendo tempo. «Negoziare non è solo parlare o guardarsi a vicenda – ha detto, parafrasando Saint-Exupéry –, è guardare insieme nella stessa direzione».
Ma lo strabismo di Londra non migliora. Se il catenaccio nei colloqui con Bruxelles rischia di compromettere l’accordo commerciale che varrebbe l’accesso al mercato unico europeo, cioè un’assicurazione sulla vita, non c’è traccia della Global Britain promessa dai Conservatori. Anzi, stentano a decollare i trattati di scambio da definire con il resto del mondo, con il Regno Unito fuori dall’ombrello tariffario dell’Ue.
Per esempio, l’intesa raggiunta con Tokyo sarà una fotocopia di quella già in vigore fra Giappone e l’Eurozona. Non sono condizioni peggiorative, è già qualcosa. Ma allora qual è stato il senso di abbandonare l’Unione, innescando un harakiri in termini di politica interna, se poi – quando va bene – si ritorna allo status quo? Se il calco si ripetesse, sarebbe l’ennesima mistificazione della campagna referendaria.
«Unleash Britain’s Potential», scatena il potenziale del Regno Unito, era uno degli slogan valsi a Boris il trionfo alle urne di dicembre. Pensava di guidare una supersportiva frenata dalla zavorra di Bruxelles, ma nella migliore delle ipotesi il motore è fuori giri. Nella peggiore, lo aspetta un frontale con la realtà. Nonostante serva sempre più urgentemente un exit plan, la strategia di Downing Street resta confusionaria.
A reminder of the appropriate reaction to Tony Abbott. pic.twitter.com/kqcC3LTKJv
— Prof Paul Bernal (@PaulbernalUK) August 25, 2020
La mossa più recente è la nomina dell’ex primo ministro australiano (fra il 2013 e il 2015) Tony Abbott al vertice della task force incaricata di procacciare accordi economici in giro per il pianeta. Sostenitore della Brexit, in passato ha caldeggiato il «no deal» azzardando un paragone con la sua madrepatria. Peccato che gli scambi fra l’Australia e il vecchio continente valgano in totale 47 miliardi di euro (fonte: Commissione europea), mentre da solo l’export britannico in Ue pesa oltre sei volte tanto: 300 miliardi di sterline (fonte: House of Commons).
L’ex leader del Liberal Party farà da consulente, probabilmente ben remunerato da soldi pubblici. Tra l’altro, il Board of Trade di cui sarà stratega ha già la reputazione compromessa da quando, nel 2017, venne fuori che era formato da un solo componente. Con la figura del guru in declino, Oltremanica le premesse non sono promettenti: Dominic Cummings – il «Bannon», meno cialtrone, dietro Boris – coltiva un low profile da desaparecido dopo aver violato il lockdown.
Prima di sposare la causa separatista, dalle colonne del Times Abbott aveva consigliato agli elettori inglesi di votare per restare nell’Ue. Oplà. Non si può esigere coerenza dalla politica, in fondo lo stesso Johnson aveva nel cassetto due editoriali per il Telegraph – uno pro «Leave» e uno pro «Remain» – e scelse all’ultimo a quale causa votarsi in base alla convenienza. La carriera gli ha dato ragione: prima ministro degli Esteri, poi premier. Ha festeggiato da poco un anno a Downing Street, terrà nei consensi?
The #Brexit transition ends 31.12.2020. In 5 months, 🇬🇧 leaves 🇪🇺 Single Market and Customs Union.
Changes are inevitable, with or without agreement on the new partnership. Companies and citizens must get ready.
Find guidance from @EU_Commission herehttps://t.co/7NzAw22C1o pic.twitter.com/kf5QlynDKG
— Michel Barnier (@MichelBarnier) August 4, 2020
Nel frattempo, la prospettiva di accelerare l’integrazione economica domestica dopo la Brexit preoccupa il Galles. «Queste tensioni, se non affrontate, accelereranno la dissoluzione dell’Unione», ha scandito il governo di Cardiff. Fra la questione nordirlandese e il mai sopito indipendentismo della Scozia, si sono sprecate le profezie sul «crollo» del Regno. Di certo, nell’aggettivo che lo accompagna – «Unito» – si sono aperte delle crepe.
Alla fine, per catturare l’assurdità della testardaggine British basta nominare uno dei dossier sui quali il diverbio sembra impossibile da sanare. La pesca. Nell’ultimo discorso di Barnier, monopolizza il testo con due sotto paragrafi: più spazio di quanto ne sia dedicato alla transizione. Chiudere le acque della Regina alle fregate battenti bandiera comunitaria, che catturano otto volte il pescato dei «padroni di casa», è stato uno slogan di lungo corso dei Tories.
Però il settore rappresenta uno zero virgola nel PIL inglese: lo 0,12%, per la precisione. E il 75% di ciò che finisce nelle reti «sovrane» viene comunque rivenduto agli europei (dati Ispi). Insomma, è propaganda. O una contropartita, quella delle quote di pescato, non all’altezza di ripagare il lasciapassare per il mercato unico. La paralisi minaccia il futuro di 2 milioni di cittadini europei che hanno ottenuto il diritto permanente a restare in Inghilterra. Britain first, d’accordo, ma sarebbe vergognoso se venissero prima pure triglie e merluzzi.