Originariamente pubblicato su Osservatorio Balcani caucaso transeuropa.
«Campi informali sgomberati, famiglie deportate e lasciate senza assistenza sul ciglio di una strada, manifestazioni violente anti-migranti. In Bosnia Erzegovina – denuncia Silvia Maraone, project manager di Ipsia che opera a Bihać nel Cantone di Una-Sana – si è raggiunto l’abisso».
«Sembra che le attuali condizioni imposte dal governo locale del Cantone di Una-Sana non facciano sconti per nessuno. Nemmeno le famiglie, le donne e i bambini hanno più accesso ai centri di accoglienza. È vietato il trasporto su qualunque tipo di mezzo pubblico, il che lascia spazio ai trafficanti di fare affari sempre più remunerativi. In una parola sola: caos». Maraone racconta così la gravità della situazione.
Nel frattempo, si sono svolte retate e sgomberi della polizia dei campi informali, la deportazione dei migranti fuori dal Cantone, manifestazioni di protesta dei cittadini, campagne diffamatorie o di minaccia nei confronti di migranti, volontari e associazioni. Come si è arrivati a questa escalation?
Come già scrivevamo a metà marzo, a causa dell’emanazione dello stato d’emergenza in Bosnia Erzegovina per contenere la pandemia da Covid-19 la situazione si è fatta ancora più difficile. I campi ufficiali, colmi già a marzo oltre la capienza prevista, sono stati chiusi a nuovi ingressi, mentre il flusso di persone in arrivo dal tratto sud-est della rotta balcanica (dalla Turchia alla Grecia, attraversando poi Macedonia e Serbia) non si è fermato. Così come nella parte “finale” della rotta, sono proseguiti i push back a catena della polizia di Italia, Slovenia e Croazia verso il territorio bosniaco.
I migranti sono concentrati nel Cantone di Una-Sana, soprattutto nella zona di Bihać e Velika Kladuša, perché vicini al confine nord-orientale con la Croazia dove poter tentare il “game”, cioè il passaggio della frontiera verso l’Ue. Impossibilitati a entrare nei campi ufficiali, non è stata fornita alcuna assistenza esterna se non l’allestimento di un campo di tende a Lipa, tra Bihać e Bosanski Petrovac, – definito di “emergenza” – in poco tempo sovraffollato anch’esso. Molti, chi per volontà di riprovare il “game”, altri per necessità, hanno così cercato rifugio in vecchie strutture abbandonate, accampamenti improvvisati o nei boschi.
Si può definire l’inizio del “caos”, lo sgombero da parte della polizia dell’accampamento improvvisato dai migranti lungo il fiume Kladušnica a Polje (nei pressi di Velika Kladuša), poco distante dal campo ufficiale Miral gestito da IOM (International Organization for Migration). A seguito delle lamentele degli abitanti, come ha dichiarato alla stampa il portavoce della polizia del Cantone Ale Šiljdedić, le autorità a metà luglio hanno deciso lo sgombero. Ricostituitosi poi l’accampamento, è stato nuovamente sgombrato dalla polizia ad inizio agosto.
Poi, dopo l’incontro con il gruppo di crisi del Cantone Una-Sana, il sindaco di Bihać Šuhret Fazlić ha dichiarato insostenibile la situazione anche nel suo territorio: «Mai stata peggiore di ora. Ogni giorno assistiamo a un incontrollato flusso di migranti, in migliaia per le strade, accampati ovunque e in edifici abbandonati. Di nuovo, siamo lasciati soli in questa situazione. Siamo pronti ad adottare misure radicali».
La mancanza di un sistema di accoglienza su tutto il territorio bosniaco, in primis strutture dove accogliere i migranti, è stata spesso denunciata in passato da gruppi e associazioni. Lo aveva sottolineato anche Silvia Maraone nell’ottobre scorso in un’intervista su OBCT: «È una situazione che potrà solo peggiorare nei prossimi mesi, se non si prenderà l’urgente decisione di aprire nuovi campi o di riempire all’inverosimile i campi esistenti. È una prospettiva che abbiamo già visto in passato. Proprio per essere già accaduto, non dovrebbe più accadere e mi lascia stupefatta il fatto che in Bosnia la questione migratoria venga trattata ancora come emergenziale e tutto ricada solamente sulla zona Una-Sana. Non è sostenibile».
Ma dopo allora, a parte l’apertura ad aprile scorso del campo d’emergenza a Lipa, nulla è stato fatto.
Va ricordato infatti che ad oggi, a parte il piccolo campo di Salakovac (nei pressi di Mostar, gestito dal Ministero per i diritti umani e rifugiati) e i due campi di Ušivak e Blažuj nel Cantone di Sarajevo (gestiti da IOM), il Cantone di Una-Sana è la zona a maggior presenza di campi (tutti gestiti da IOM): per soli uomini il “Miral ” a Velika Kladuša e il “Bira” a Bihać – i due più sovraffollati – e i due campi per nuclei familiari “Borići ” e “Sedra”. Ed è proprio nel Cantone Una-Sana che si concentra quasi l’80% dei migranti presenti in tutta la Bosnia: «Sono almeno 5.000 nel Cantone e solo la metà di loro è alloggiata nei centri di accoglienza. Gli altri dormono in palazzi distrutti o in mezzo ai boschi nell’attesa di partire e andare al “game”, dove altre violenze li aspettano».
«Dopo gli sgomberi dei campi informali – prosegue a raccontare Silvia Maraone – nelle ultime settimane la popolazione di Velika Kladuša si è organizzata per ritrovarsi e protestare contro la presenza dei migranti». Le proteste hanno cominciato ad essere organizzate ogni settimana, sostenute e partecipate anche da cittadini di altri luoghi del Cantone attraverso un tam tam di diversi gruppi Facebook creati ad hoc.
Alle manifestazioni pacifiche si sono aggiunte però azioni di ben altro tipo: «Organizzandosi attraverso questi gruppi, i cittadini hanno cominciato a bloccare l’accesso alla città dei migranti in arrivo via bus o minivan. In alcuni gruppi Facebook chiusi segnalavano persino l’arrivo e le targhe dei mezzi per poi preparare il blocco delle strade, sino ad arrivare a tirare pietre e bastoni contro i mezzi pubblici o darli alle fiamme».
«Oltre a questo – aggiunge Maraone – i cittadini hanno attaccato i migranti per le strade, minacciandoli e picchiandoli e a segnalare i volontari della zona». Come riporta la stampa locale, alla protesta del 17 agosto a Velika Kladuša è dovuta intervenire in forze la polizia. Gruppi di cittadini hanno bloccato le strade attorno al campo “Miral” e attaccato un autobus pubblico che trasportava migranti.
Casi di furti e violente colluttazioni che vedono coinvolti i migranti, accompagnati da una narrazione mediatica “di terrore”, vengono strumentalmente usati da alcuni gruppi di cittadini per giustificare azioni di caccia all’uomo e l’organizzazione di gruppi xenofobi, che trovano terreno fertile in un paese che a 25 anni dalla fine della guerra soffre ancora importanti problemi economici, politici, sociali e forti divisioni interne.
Due giorni dopo la protesta violenta del 17 agosto a Velika Kladuša, il Gruppo operativo del Cantone Una-Sana ha decretato misure durissime: lo sgombero di tutti i migranti dalle strade, da palazzi abbandonati, accampamenti informali ma anche da strutture private; l’avvio di ispezioni, in collaborazione con la polizia, di coloro che offrono servizi di accoglienza per i migranti; il divieto ai migranti di uscire dai campi ufficiali e il divieto di trasporto e ingresso dei migranti nel Cantone.
Oltre a questo, il ministero degli Affari interni del Cantone ha dato ordine di formare posti di blocco della polizia sulle strade di ingresso al Cantone, per controllare autobus e mezzi di trasporto e bloccare tutti i migranti sul confine tra le due Entità di cui è costituito il paese, la Federazione croato-musulmana (in cui sta il Cantone) e la Republika Srpska.
Non solo, come sottolinea Silvia Maraone: «Le persone catturate con gli sgomberi tra Bihać e Velika Kladuša non sono state portate solamente al sovraffollato campo di Lipa, come di consueto, ma sono state trasportate sino al confine tra la Federazione e la RS. Vengono lasciati sul ciglio delle strade a Velečevo vicino a Kljuć o tra Bosanska Otoka e Blatna anche famiglie con bambini, abbandonati senza alcuna assistenza. Qui si è raggiunto l’abisso dell’umanità».
Si tratta di restrizioni della libertà di movimento che violano basilari diritti umani, come ha denunciato Amnesty International in un comunicato del 25 agosto. E si tratta di violenze e deportazioni, sulle quali Transbalkanska Solidarnosti chiede alle autorità locali e alle organizzazioni internazionali di “interrompere la politica del silenzio”, condannarle pubblicamente, perseguire i responsabili, e assicurare ai migranti un’accoglienza dignitosa e sicura.
Inoltre, su queste deportazioni Transbalkanska Solidarnosti ha raccolto diverse testimonianze, tra le quali video realizzati dall’Ong “No Name Kitchen” a Bosanska Otoka. Racconta A., 16 anni: «Dormivo con tanti altri in una vecchia fabbrica abbandonata vicino a Bihać… è arrivata la polizia, saranno stati 20 o 25 poliziotti. Hanno bruciato tutto, vestiti, cellulari, zaini. Ci hanno picchiati con i manganelli, ci hanno poi deportati qui dove stiamo senza cibo, senza nulla. Sono scappato dall’Afghanistan per salvarmi e poi qui trovo questa violenza… Perché?!». Secondo queste testimonianze, nei due giorni precedenti sono arrivati a Otoka sei pullman pieni, mentre si stima che il giorno in cui è stata raccolta la testimonianza, siano 500 i migranti qui bloccati sulla linea di demarcazione tra le due entità, portati da Tuzla e Sarajevo, oltre che da diversi luoghi del Cantone Una-Sana.
Alla risposta violenta nei confronti dei migranti si è aggiunta anche la criminalizzazione della solidarietà. «La tensione è salita moltissimo – ci racconta Silvia Maraone – e si sono organizzati gruppi Facebook [ndr: uno dei più attivi, denuncia No Name Kitchen, ha raggiunto i 5000 iscritti] che invitano a denunciare i cittadini che accolgono migranti, gruppi che rivolgono accuse e minacce ai volontari e alle organizzazioni che operano con i migranti».
«Al contempo – aggiunge Maraone – nonostante il caos generale e le difficoltà un certo numero di migranti tenta comunque il “game”. Mentre noi delle Ong e delle associazioni che lavoriamo con loro nei campi ci troviamo a che fare con persone che ci chiedono cosa sta accadendo e perché. Gli avvenimenti delle ultime tre settimane sta incidendo molto sulle nostre attività con loro».
Racconta, ad esempio, che l’Ong Ipsia per cui Maraone lavora, sta per iniziare un progetto, co-finanziato con fondi dell’UE, assieme a IOM per attività di integrazione tra migranti e popolazione da realizzarsi all’esterno dei campi. «Ma in questo momento caotico e di tensione, non riusciamo a farlo… è parossistico, direi. Quindi stiamo un po’ navigando a vista, come durante il lockdown. Rimaniamo attivi nel campo Bira con il “Social Cafè” e con attività di relazione. Non è facile, sapendo che tutti ti odiano e che sono odiati i beneficiari dei tuoi interventi… Per cui manteniamo un atteggiamento guardingo, evitiamo di incorrere in incidenti, usando misure di cautela anche quando andiamo in giro evitando troppa visibilità. Ma andiamo avanti, ostinatamente».
Resistono anche, pur tra mille difficoltà, le attività di singoli cittadini e cittadine, e gruppi di volontari solidali, a sostegno dei migranti fuori dai campi ufficiali: con la distribuzione di generi di prima necessità, abbigliamento e azioni di denuncia delle violazioni di diritti e delle violenze subite.
Amara la conclusione dell’operatrice di Ipsia, Silvia Maraone: «Mai come ora il braccio di ferro con il resto del paese si era fatto così teso nel Cantone Una-Sana. Il messaggio è chiaro: non vogliamo più migranti, prendeteveli anche voi. Il che lascia spazio alle già note tensioni politiche che governano la Bosnia Erzegovina da 25 anni, da quando un piano di pace disgraziato (gli Accordi di pace di Dayton, siglati nell’autunno del 1995 dai presidenti di Bosnia Erzegovina, Serbia e Croazia che decretarono la fine della guerra) anziché salvarla, l’ha condannata».