Azione vota NoIl Partito democratico rischia di fare la fine dei socialisti in Francia, dice Calenda

L’ex ministro dello Sviluppo economico punta a superare col suo partito la soglia piscologica del 5% e sogna un monocameralismo secco. Pensa che il sì dei dem al referendum abbia creato una crepa nella loro base: «L’ho detto a Zingaretti: “Se continui così rischi di essere il segretario che ha portato il Partito democratico alla completa distruzione”»

Carlo Calenda ha due obiettivi: portare il suo partito Azione sopra la soglia psicologica del 5% nei sondaggi e cambiare il modo in cui si vive la politica in Italia. Non più uno scontro tra tifosi in cui si accetta tutto quello che fa la propria squadra e si demonizza tutto ciò che rappresenta l’altro, ma un dibattito sui temi che premi chi sa gestire la cosa pubblica.

Secondo gli addetti ai livori è più facile realizzare il secondo obiettivo che il primo, mentre secondo i sondaggi Azione non sta andando per niente male per essere nato da poco.

La rilevazione di fine agosto di Alessandra Ghisleri ha dato Azione al 4,2%. «La Meloni per arrivare dove sta oggi Azione, ci ha messo cinque anni. Noi lo abbiamo fatto in dieci mesi. Quando giro per l’Italia la gente mi dice: “Vi voterei, se non foste un piccolo partito”. Per questo dobbiamo rompere la soglia del 5% per crescere rapidissimamente. Per farlo non abbiamo bisogno di unirci ad altri partiti. Sarebbe una scorciatoia. Bisogna mettersi a girare l’Italia, gambe in spalla e andare in televisione a spiegare l’idea che abbiamo del Paese».

Qual è la sua idea sul referendum del 20 e 21 settembre?
Se vincerà il Sì peggiorerà il funzionamento del Parlamento. Rimanendo il bicameralismo perfetto, le commissioni parlamentari di Camera e Senato avranno talmente pochi membri che i lavori si intopperanno. Per esempio, la Commissione parlamentare Attività produttive che segue tantissimi dossier avrà solo 12 membri. 

Eppure i sostenitori del Sì dicono che nella passata legislatura il 40% dei deputati e il 30% dei senatori ha disertato più di un terzo delle votazioni. 
Accadrà la stessa cosa anche con un Parlamento ridotto. Non ci sarà mica una mutazione genetica del comportamento di deputati e senatori. Perciò con lo stesso tasso di assenteismo e meno deputati e senatori si ingolferanno le commissioni parlamentari e il processo legislativo sarà rallentato. 

Con meno parlamentari ci potrebbe essere però una migliore selezione dei politici da mettere in lista.
E invece peggioreranno. Oggi i segretari di partito mettono nelle lista prima i fedelissimi, perché non si mettono mai in discussione. E poi aggiungono delle personalità della società civile, che vengono dal mondo del lavoro e portano in Parlamento la loro esperienza specifica in determinati temi. Queste persone vengono sempre scelte all’ultimo momento del processo di selezione delle liste. E i segretari di partito lo fanno perché vogliono dare un po’ di belletto e far vedere che sono attenti alla qualità delle liste. Non ci vuole un genio per capire chi sarà tagliato nelle nuove liste ridotte.

Le liste ridotte però sono così anche per colpa della legge elettorale. Sia il Movimento Cinque Stelle che il Partito democratico hanno promesso di farne una nuova, dopo il referendum.
Appunto: dopo il referendum, non prima. E non mi fido neanche un nanosecondo che lo faranno. Perché mai i segretari di partito dovrebbero privarsi della possibilità di scegliere loro chi candidare? E al posto delle liste bloccate metteranno le preferenze? Non ci credo neanche se lo vedo. Prima facciano una nuova legge elettorale e poi parliamo del referendum. Primo, una riforma dove tutti quanti dicono che poi ci vorranno un sacco di correttivi è per definizione una cosa che fa schifo. Altrimenti perché bisognerebbe fare tutte queste modifiche subito dopo averla approvata?

In questi giorni molti sostenitori del sì ripetono che “Il meglio è nemico del bene”, e che è meglio iniziare ottenendo almeno il taglio dei parlamentari, o non si farà mai una riforma del Parlamento.
Questo è il ragionamento che ha incasinato l’Italia. “Cambiamo qualunque cosa pur di cambiare” è ciò che ha portato i Cinquestelle al governo. Il cambiamento non va bene solo per cambiare. Ha senso solo se si migliora l’efficienza e la qualità del sistema. Sennò non è un cambiamento, ma una cazzata. Che è un concetto diverso.

E allora quale sarebbe per lei la riforma costituzionale migliore?
Sono per il monocameralismo secco. Una Camera rappresentativa che abbia un rapporto tra eletti ed elettori nella media europea e che faccia tutto il lavoro parlamentare. Non servirebbe neanche una seconda Camera con funzioni di rappresentanza territoriale, perché esiste già la Conferenza Stato-Regioni. Nel Regno Unito si parla da ciclicamente di abolire il loro “Senato”, la Camera dei Lord. E anche negli altri paesi la seconda camera più che una necessità è il residuo di un’altra epoca in cui la democrazia poteva decidere in tempi lunghi. Nel nostro caso ancora più lunghi perché siamo l’unico Paese occidentale con il bicameralismo perfetto. Ma in Italia di questo non si riesce a parlare in modo oggettivo, stando sui temi.

Perché?
Da 75 anni in questo Paese la politica è solo uno scontro. All’inizio era ideologico, mentre negli ultimi anni è diventato una continua partita tra squadre e tifoserie. La militarizzazione dell’elettorato ha prodotto due problemi. Primo, la politica non è più arte di governo. Non si giudica più se un politico amministra bene o male. L’unico posto dove si fa ancora è nelle città, ma man mano che ci allontaniamo, nelle regioni e nella politica nazionale, questo metro di giudizio non esiste più. E questo ha delle conseguenze. Il politico puro non è più un bravo amministratore, ma quello che parla alla pancia del Paese. Chi sa gestire le cose è percepito come un tecnico. Questa è una distorsione totale del ruolo del politico che in teoria dovrebbe essere giudicato per le cose che fa nella realtà. Ma la realtà ormai non interessa più a nessuno.

Addirittura.
Ma sì. Lo scopo ormai è diventato solo demonizzare l’altro. Ci comportiamo come al Palio di Siena, votiamo per far perdere la contrada opposta. Vogliamo veder cadere il cavallo e il fantino. Questo meccanismo talmente surreale, per cui se Michele Emiliano ha come principale alleato per le regionali in Puglia un sindaco dichiaratamente fascista, comunque bisogna votarlo per fermare le destre. Ma io reputo Raffaele Fitto molto meno fascista del sindaco di Nardò. In realtà l’antifascismo non c’entra niente, viene usato solo per cercare di procacciare un vantaggio alla propria squadra. Bisogna de-ideologizzare la politica. Io in Puglia sostengo Ivan Scalfarotto perché ha il miglior cv per fare il presidente di Regione. Di tutto il resto non mi importa nulla.

Però gli italiani continuano a tifare, anche alle elezioni regionali. E al referendum. Forse il problema sono gli elettori?
In questi anni gli elettori italiani hanno avuto tanti alibi. Votano Di Maio e poi rinnegano lamentandosi dell’incompetenza della politica. Se proprio dobbiamo votare con una legge proporzionale almeno introduciamo le preferenze. Certo, sono problematiche perché portano con sé anche le ombre del voto di scambio, ma almeno metteremmo gli elettori nelle condizioni di prendersi la responsabilità di chi hanno votato. Non basta però una legge elettorale. Finché non decideremo di scendere da questa quota per criceti per cui ci facciamo mobilitare contro l’altro, votiamo il meno peggio che diventa il peggio, ci lamentiamo dei i politici e poi li vogliamo punire, tagliando loro gli stipendi, continueremo a girare. E girare. 

Come si fa a scendere dalla ruota?
Ci sono due modi. Il primo è provare a offrire una politica come gli italiani l’hanno sempre chiesta, in teoria. Ovvero che sia oggettiva, coerente e trasparente. Per esempio se un provvedimento è fatto bene, anche se lo ha pensato il tuo avversario gli fai i complimenti. Oppure non dici che i 5 Stelle sono come la Lega e poi ti alleai con loro. Secondo, la politica deve cercare sempre di spiegare in modo chiaro i fatti prima di prendere una posizione. Deve sempre offrire una soluzione articolato ma non deve pensare che un provvedimento possa risolvere da solo tutti i problemi. Questa caratteristica italiana abbiamo visto dove ci ha portato con quota 100 e il reddito di cittadinanza. In realtà il buon governo è una concatenazione di eventi e iniziative che devono essere fatte con estrema cura.

La parola “gestione” però non sembra molto seducente agli occhi degli italiani
Non era sexy finché non abbiamo scoperto che senza lo Stato in un periodo di crisi muori. Prima pensavamo: sì c’è il declino senza Stato ma io “speriamo che me la cavo”. Però adesso stiamo scoprendo in questa pandemia che senza Stato in una crisi epocale non solo non te la cavi, ma non sopravvivi. Trasformare la politica da ideologica a pragmatica è una sfida, ma penso che ci sia una valanga di italiani che vuole avere una offerta diversa.

Ma così la politica non rischia di diventare solo “gestione”?
La politica non è solo gestione: è anche pensiero sul ruolo del nostro Paese nel mondo in un preciso momento storico. Ma in questo Paese c’è bisogno di tanto pragmatismo. Per questo motivo con Azione stiamo selezionando la nostra classe dirigente attingendo da un bacino molto ampio: quello degli amministratori locali. Hanno la caratteristica di avere un fortissimo rapporto con i cittadini e le loro esigenze. Se le buche delle strade non le chiudi puoi essere di centro, di sinistra o di destra, i cittadini ti mandano a casa.

Da un po’ di tempo i dirigenti del Partito democratico non chiudono le buche, ma rimangono stabilmente al 20%.
Il Partito Democratico ha dentro un gruppo di classe dirigente che sa perfettamente di non poter recuperare la vocazione maggioritaria perché non ha la forza, non ha il carisma, non ha le idee. E pensa che l’unico modo per continuare a stare un governo è allearsi coi Cinquestelle. Ma i grillini nella loro pazzia sono più determinati. Il Pd non ha leadership. Il 20% dei voti si spiega con il fatto che gli elettori demi hanno un attaccamento al brand. Chiunque ci sia lo votano, perché pensano di votare Berlinguer, o Moro. È il più grande assegno in bianco della politica italiana a una leadership che ha fatto cose impensabili. Ma sul referendum si sta aprendo una crepa che rischia di diventare una voragine. 

Perché?
Sul sì al referendum lo scollamento con la base è evidente. La misura sta diventando colma e il Pd rischia di perdere anche gli elettori più fedeli. L’ho detto a Zingaretti: “Se continui così rischi di essere il segretario che ha portato il Partito democratico alla completa distruzione”. Prima o poi l’arroganza di pretendere che gli elettori sosterranno il Pd qualunque cosa succeda potrebbe portare a una frana politica. E quando la frana parte rischia di andare alla velocità della luce. Il Pd rischia di fare la fine del Partito socialista francese.

Potrebbe cambiare qualcosa se Stefano Bonaccini sostituisse Nicola Zingaretti come segretario?
Cambierebbe solo un altro giro di giostra. Il Pd guadagnerebbe un po’ di tempo, ma ho un dubbio: che il Partito democratico non sia più in grado di andare strada per strada a riguadagnare il consenso, perché dentro è un corpo molto esaurito nella classe dirigente. E quando una classe dirigente agita lo spettro dell’antifascismo e del pericolo delle destre vuol dire che non ha più molto da dire. Poi la divinizzazione di Bonaccini fa un po’ ridere. Azione lo ha appoggiato alle elezioni regionali perché è un bravo amministratore. Ma il fatto che oggi la “rising star” del Partito democratico non sia uno che vinto Lombardia, ma che non ha perso l’Emilia Romagna e che la presenta come se avesse conquistato la Russia a piedi dà il senso del momento che stiamo vivendo.

Nel Partito democratico però non ci sono solo Zingaretti e Bonaccini.
Ma l’ho detto pure al mio amico Giorgio Gori. Se rimani nel Pd rischi di fare la fine dei miglioristi nel Partito comunista. Che è una cosa molto nobile, ma non ti permette di cambiare le cose davvero. Macaluso è un intellettuale di grandissima qualità, ma nel Pci non decideva nulla. 

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