Martin era tutto quel che Harry odiava dell’Inghilterra. Ma la vita è sceneggiatrice: tutti e due sono stati amori di Tina, e Harry è morto il giorno prima che uscisse il romanzo autobiografico di Martin.
Martin Amis, figlio di grande scrittore (Kingsley) ed eccezione unica alla regola per cui i figli dei giganti sono imbecilli. Diventa uno scrittore più gigantesco del padre, ed è autore fra le altre cose di uno dei più spettacolari romanzi del Novecento, L’informazione (Einaudi). Dice la leggenda che, quando le chiedono della loro relazione, Tina Brown risponda «Mi scoperei chiunque sapesse scrivere così».
Harold Evans, detto Harry, figlio d’un ferroviere e d’una cassiera di negozio d’alimentari, prende quell’ascensore sociale che in Inghilterra è lui stesso a dire non esista, e diventa quello che gli inglesi ricordano come il miglior direttore di giornale mai nato in quel posto; ne parlano in questi termini quando dalla sua ultima direzione son passati quasi quarant’anni. (Murdoch lo fece fuori dal Sunday Times nell’81).
Dopo Murdoch, Harry E. ha avuto altre cento vite, si è trasferito in America con Tina (la sua seconda e definitiva moglie), si è inventato riviste di viaggi e successi editoriali, ha scritto libri, ha fatto il principe consorte: nel frattempo Tina Brown diventava Tina Brown, dirigendo Vanity Fair, il New Yorker, il Daily Beast, e persino Talk, che durò poco ma fu un mensile prestigiosissimo; il suo editore, un certo Harvey Weinstein, era quello da cui andare se volevi un illuminato investitore per il tuo coraggioso progetto culturale, e non un maniaco sessuale di cui parlare con raccapriccio.
Mercoledì Evans è morto, novantaduenne, e ieri è uscito Inside Story, romanzo in cui Amis non si è neanche incomodato a cambiare i nomi (come Walter Siti, come Teresa Ciabatti). D’altra parte, ha spiegato a Salman Rushdie (che l’ha intervistato per primo e che è anche nel libro, essendo un suo amico: Amis non ha amici che facciano gli idraulici, o se li ha sa che non ce ne frega niente di leggere delle loro gesta), cosa racconto di Saul Bellow e di Christopher Hitchens a fare, se li chiamo Asdrubale e Pierfrancesco.
Per fortuna Inside Story è lungo quasi seicento pagine, ed Einaudi ci metterà sette secoli a tradurlo, almeno abbiamo sette secoli per prepararci allo sdegno che susciteranno, in questa storia di maschi bianchi etero e cis, le pagine in cui due dei maschi bianchi etero e cis, Hitchens e Amis, discutono della loro peggiore ex. Che, spiega Amis, si definisce così: «La meno attraente, la più noiosa, quella più imbarazzante quando siete con altri, quella più garrula, quella più piena di sé, e la peggior scopata».
Naturalmente è un romanzo, mica gli uomini parlano così tra di loro, sappiamo bene che lodano solo la nostra bellezza interiore e i nostri valori.
Ne parlano, di questa idea platonica della peggiore ex, per ragioni tangenziali alla letteratura: Inside Story è un libro in cui ci sono (minimo) due citazioni letterarie a pagina, è un libro il cui autore non ha intenzione di farti dimenticare neanche per un istante perché hai comprato il biglietto, e che lui è uno scrittore, i suoi amici sono scrittori, e se vuoi un repertorio di citazioni citabili è a loro che devi rivolgerti.
Ne parlano perché Hitch deve recensire un libro che Amis ha già recensito, e cercano di non parlare del fatto che l’autore di quel libro, Philip Larkin, è morto sessantatreenne di cancro all’esofago, e Hitch sta morendo di cancro all’esofago (morirà sessantaduenne).
Insomma Hitch ha appena iniziato a leggere, e Martin gli spiega che poi arriverà al punto in cui si capisce che la donna del titolo è una pessima scopata, e a un certo punto Amis dice che la cosa peggiore che possa capitarti è la solitudine del sessualmente sfortunato, e Hitch dice ma tu che ne sai, non sei mai stato senza scopare in vita tua, e Amis dice no no, c’è stato un anno, prima che ci conoscessimo, non riuscivo a recuperarne nessuna, e sentivo che tutto quel desiderio insoddisfatto mi consumava, si trasformava in amarezza, ed è stata Tina a tirarmi fuori. «Quando aveva diciannove anni Tina è arrivata in città e mi ha salvato dalla terra dei Larkin».
E a quel punto, giacché siamo a metà pagina e ancora non ci hanno ammollato una citazione per umiliarci col loro essere di migliori letture di noi, Hitch risponde «E se Tina non fosse intervenuta, tu non avresti mai scritto di Stalin e Hitler. Com è quel rigo in uno dei primi romanzi di Julian? “Come siamo a letto governa come vediamo la storia del mondo”. O qualcosa del genere, il senso è quello». Julian è Barnes, che naturalmente è amico loro. Poi dice che è in Italia, che non si può fare la rivoluzione perché ci conosciamo tutti.
(Tina Brown aveva 19 anni nel 1972. Koba il terribile, il libro di Amis su Stalin, è di trent’anni dopo, quando Brown era già sposata da vent’anni con Evans).
Martin e Harry erano molto più simili di quanto l’essere un figlio di papà e uno che si era fatto da solo potessero far immaginare. A entrambi piacevano le belle donne, il bel mondo (l’ex direttore del Financial Times ha scritto ieri che Evans accettò d’essere fatto cavaliere dell’odiato impero britannico, nel 2004, perché così gli avrebbero dato tavoli migliori nei ristoranti newyorkesi), e le parole.
Tre anni fa Evans pubblicò un libro (Do I Make Myself Clear? – Why Writing Well Matters) sull’importanza di scrivere senza tic, senza sciatterie, senza margini d’equivoco, che si tratti d’un articolo o d’una dichiarazione di guerra.
«La legge di Murphy – tutto quel che può andar male, lo farà – trova fondamento ogni giorno. Propongo il corollario di Evans: tutto quello che andrà male lo farà sempre con un numero di parole maggiore rispetto a quello che andrà bene».
Sono già stata troppo verbosa rispetto al corollario di Evans, ma mi dilungherò qualche altra riga per riportare un altro passaggio, che svergogna un tic nel quale i mediocri del mondo cascano sempre, e gli Amis mai. Evans la chiama “monològofobia”, parola orribile inventata da un suo maestro di giornalismo. Essa riguarda colui che camminerebbe nudo per strada piuttosto che usare la stessa parola due volte in tre righe.
Se avete mai letto un giornale italiano, sapete quali mostri generi la fobia delle ripetizioni: politici chiamati col nome proprio, partiti chiamati con l’indirizzo della sede, eccetera. Evans il fobico lo descriveva così: «Fosse per lui, riscriverebbe la Bibbia per farle dire “Dio disse: sia fatta la luce, e l’illuminazione solare fu”».
Come ha saputo scegliersi i maschi bianchi etero cis Tina, nessuna.