Il riciclo non bastaIl problema non è riciclare la plastica ma l’uso che ne facciamo

Meravigliosa perché durevole ma anche terribile per lo stesso motivo, la sua popolarità è accompagnata da un aumento costante della quantità di rifiuti che genera conseguenze negative sull’ambiente e sulla salute. Questo ha reso necessario sviluppare un sistema, ancora troppo debole, per il suo corretto smaltimento

Dai sacchetti alle bottiglie e ai giocattoli. Dai contenitori per alimenti ai flaconi dei detersivi e alle pellicole isolanti. Economica, versatile e resistente, la plastica è ampiamente utilizzata in tutto il mondo.

Meravigliosa perché durevole ma anche terribile perché durevole, la sua popolarità è infatti accompagnata da un aumento costante della quantità di rifiuti che genera conseguenze negative sia sull’ambiente che sulla salute umana. Questo ha reso necessario sviluppare un sistema per il suo corretto smaltimento.

I rifiuti plastici oggi inquinano gran parte degli ecosistemi: da quelli naturali – marini e di acqua dolce ma anche terrestri come la foresta e la macchia mediterranea – fino a quelli artificiali agricoli, rurali, urbani e industriali. Incentivando una delle emergenze ambientali globali più gravi dei nostri tempi.

Numeri sempre più preoccupanti

Secondo i dati forniti da PlasticsEurope, l’Associazione dei produttori di materie plastiche, solo nel 2018 sono stati immessi nel mercato quasi 360 milioni di tonnellate (di cui più del 50% in Asia, il 18% nei tre paesi del Nafta, ovvero Stati Uniti, Canada e Messico e il 17% in Europa). Numeri importanti, anzi straordinari, soprattutto se si pensa che la produzione e l’utilizzo su larga scala di questo derivato dal petrolio sono piuttosto recenti: iniziano dopo la seconda guerra mondiale.

Dal 1950 al 2015 nel mondo sono stati prodotti quasi 8 miliardi di tonnellate di plastica. Di tutta quella generata nel 2015 solo il 9% è stato riciclato, il 12% incenerito mentre il restante 79% è stato accumulato nelle discariche o nell’ambiente. L’ha evidenziato nel 2017 la prima analisi globale di tutte le materie plastiche prodotte in serie pubblicata su Science Advances. Per quanto riguarda il Vecchio Continente, delle circa 30 milioni di tonnellate di plastica utilizzate nel 2018, solo il 32% è stato riciclato.

Particolarmente rilevante è l’impatto sugli oceani. Ogni anno, lo stima un rapporto delle Nazioni Unite, vengono scaricati in acqua 13 milioni di tonnellate di plastica: solo nel Mediterraneo ne confluiscono 570mila tonnellate. Una volta raggiunto il fondale, le plastiche diventano letali per gli ecosistemi. Molti impattanti sono gli effetti della contaminazione di questo materiale sulla barriera corallina, il vivaio del mondo sottomarino in grado di alimentare molte specie di organismi viventi e di proteggere le comunità costiere dalle mareggiate, dai venti e dalle onde. Secondo uno studio recente proposto su Npr – organizzazione indipendente no-profit comprendente oltre 900 stazioni radio statunitensi – da quando i coralli sono entrati in contatto con la plastica la probabilità di sviluppare malattie per loro è aumentata dal 4% al 90%.

Come se non bastasse, tutto questo ha delle pesanti ripercussioni economiche. I costi per gestire le implicazioni di questo dramma tutto moderno sono altissimi. Annualmente oltre 13 miliardi di dollari vengono destinati a spese di bonifica e perdite finanziarie nella pesca e in altri settori collegati, come ha evidenziato l’Annuario 2014 dell’Unep, il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente.

«Una volta in mare – sottolinea Giuseppe Ungherese, responsabile “Campagna Inquinamento” di Greenpeace – la plastica può frammentarsi in pezzi più piccoli e inferiori ai 5 millimetri. Sono noti come microplastiche e vengono ormai ritrovate ovunque sulla Terra: dalle vette alpine alle profondità marine, dall’acqua potabile al sale da cucina, passando per numerose specie marine, frutta e verdura e persino nell’aria che respiriamo. Tutto ciò ci dà un’indicazione precisa sulla portata e la gravità di questo inquinamento su cui bisogna intervenire al più presto».

Le microplastiche costituiscono quello che potremmo chiamare una sorta di “smog di plastica”. Queste particelle che galleggiano sulla superficie degli oceani provengano da parti più grandi di oggetti di uso comune che vengono scomposte dai raggi ultravioletti del sole, dall’azione delle onde marine e dal sale. Trasportate dall’acqua, le sostanze chimiche dell’industria e dell’agricoltura si attaccano a questi frammenti quasi microscopici rendendoli pillole di veleno tossico che vengono ingerite dalla fauna marina.

Un problema, soprattutto, culturale

Può sembrare strano sentirselo dire ma il problema con cui la comunità internazionale è alle prese non è tanto la plastica in sé e per sé: un materiale che, anzi, risulta molto utile per alcuni usi specifici, come accade in  campo medico-sanitario, ad esempio. Il problema, in realtà, sono le abitudini che l’uso di questo prodotto ha generato, dalla sua progettazione fino al suo utilizzo e smaltimento.

La plastica, per il largo uso che se ne è fatto negli ultimi 50 anni, ha cambiato il modo di pensare e progettare gli oggetti. L’immissione, nel mercato, di quelli “usa e getta” ha sminuito la loro funzione e il loro senso: «un tempo venivano costruiti per durare e noi ce ne dovevamo tenere cura per mantenerli integri il più possibile – sottolinea il coordinatore scientifico di Legambiente Andrea Minutolo – C’era una grande attenzione all’utilizzo e alla conservazione degli oggetti, che si è persa con l’avvento della plastica. Questa nuova mentalità ha indotto a progettare qualcosa di economico e superficiale che se cade per terra o viene smarrito “poco importa”. Tanto lo sostituisci acquistandone un altro». Il fatto, però, è che quel prodotto abbandonato diventa un inquinante.

Proprio per questo possiamo pensare al problema “plastica” come a un problema precipuamente culturale che nasce nel momento in cui la utilizziamo nel modo opposto a quello per cui è stata inventata. «Una sostanza che potenzialmente può durare centinaia di anni – sostiene Ungherese di Greenpeace – non dovrebbe essere utilizzata per creare degli imballaggi che dureranno pochi secondi e che vengono progettati per diventare un rifiuto (immediato)».

Il riciclo? Una soluzione parziale e temporanea

In tutto questo il sistema di riciclo, più volte invocato come soluzione del problema sia dalle grandi multinazionali che dal mondo della politica, non sembra essere in grado di arginare né, tantomeno, risolvere il problema. Gran parte della plastica prodotta non può essere (e non sarà) riciclata, e le ragioni sono diverse.

Molti imballaggi, così come i tubetti di dentifricio o le buste di caffè, sono costituiti da più materiali, come plastica e metallo – i cosiddetti poliaccoppiati – tuttora difficilmente riciclabili. Lo stesso Corepla, il consorzio che si occupa di recuperare gli imballaggi in plastica che derivano dalla raccolta differenziata, ricorda che poco più del 40% dei rifiuti in plastica, da noi – chi più, chi meno – diligentemente separato, viene riciclato per produrre nuovi oggetti in plastica.

In aggiunta, il prezzo delle materie prime influenza il sistema di “recupero”, in particolare la domanda di plastica riciclata sul mercato: quella vergine può essere più conveniente.

Poi c’è il problema delle plastiche eterogenee miste – film, pellicole e monostrato – che possono rappresentare una quota consistente dello scarto della raccolta differenziata degli imballaggi. «Quest’ultima tipologia molto spesso non viene richiesta sul mercato e rappresenta una sorta di rifiuto del rifiuto che crea non pochi problemi di gestione – sottolinea Ungherese – Alcune tipologie di plastiche, inoltre, sono soggette a downcycling, ovvero vengono riprocessate per essere riciclate in prodotti di bassa qualità difficili da riciclare nuovamente».

Il resto dei rifiuti? Finisce in discarica o negli inceneritori a dispetto dei principi dell’economia circolare. «Tra l’altro – sottolinea Ungherese – una grande quantità viene esportata in paesi dove le infrastrutture e i sistemi di riciclo sono poco sviluppati e che di fatto stanno diventando le discariche dei paesi occidentali».

«Il riciclo – continua Ungherese – è solo una parte della soluzione da abbinare, in via prioritaria e urgente, a misure che prevedano una drastica riduzione della produzione di plastica a livello planetario, specialmente per quanto riguarda la plastica monouso che oggi rappresenta circa il 40% della produzione globale».

«Quando si parla di gestione dei rifiuti di plastica – conferma Minutolo – il riciclo è solo uno dei passaggi. A questo si associano le altre tre “R”: riduzione, riutilizzo e il recupero (cioè la conversione del prodotto in energia). Il riciclo dunque è il tassello di un percorso ben più complesso, con degli step precedenti, su cui bisogna intervenire in maniera molto più significativa».

Qualcosa sta cambiando

Tuttavia, è giusto e sano ricordarlo, dei passi avanti si stanno realizzando. Da qualche anno supermercati “Zero waste” (letteralmente “zero rifiuti”) vengono costruiti nelle città di vari Paesi tra cui  Regno Unito, Germania, Canada, Stati Uniti, Messico, Sudafrica e molti altri. Nuovi sistemi di consegna stanno nascendo in tutto il mondo e ciò renderà la “transizione ecologica”, verso cioè una “produzione zero” di plastica, più semplice e veloce. Serviranno tempo e investimenti per eliminare gradualmente tutti i prodotti usa e getta che usiamo ogni giorno, ma è necessario che aziende e governi inizino seriamente a lavorare per raggiungere questo obiettivo.

L’Unione Europea si sta muovendo in questa direzione: un esempio è la Sup – Single Use Plastics –, la direttiva europea del 5 giugno 2019 che impone divieti o limitazioni alla vendita di alcuni articoli usa e getta in plastica. E in questo l’Italia probabilmente farà scuola. Il 18 settembre, infatti, il ministro dell’ambiente Sergio Costa ha scritto in un post facebook : «Grazie al grande lavoro che sta svolgendo il Parlamento, l’Italia è l’unico Paese a recepire la direttiva europea sul divieto dell’uso e getta estendendolo anche ai bicchieri e ai palloncini».

«Se dalla vostra vasca da bagno – dichiara Ungherese – si riversasse acqua in quantità tale da allagare casa, prendereste uno straccio per asciugare il pavimento oppure andreste subito a chiudere il rubinetto? Noi chiuderemmo il rubinetto e poi useremmo lo straccio, ed è proprio la stessa cosa che bisogna fare con la produzione della plastica: intervenire all’origine del problema. Nel tempo necessario affinché questa transizione avvenga, l’utilizzo di plastica riciclata al posto della plastica vergine può essere una soluzione temporanea ma non a lungo termine. La diminuzione degli imballaggi di plastica deve essere la priorità delle agende non solo delle multinazionali ma anche delle istituzioni». E, da non dimenticare, di ognuno di noi.