Una decina di anni fa il Tibet era sulla bocca di tutti. Il movimento “Free Tibet” in occasione dei Giochi olimpici di Pechino del 2008 aveva contribuito a denunciare le violazioni dei diritti umani mostrando il volto repressivo del regime cinese. Ma dopo quel momento di indignazione collettiva tutto è scivolato nel silenzio. Silenzio recentemente coperto dalle attenzioni mediatiche su Xinjiang e Hong Kong.
A ricordarci l’esistenza del Tibet ci ha pensato Xi Jinping. Il presidente cinese, in occasione di un incontro tenuto con funzionari di partito ad agosto, ha parlato del futuro della provincia e della necessità di costruire una “fortezza inespugnabile” per mantenere la stabilità della regione salvandola dal separatismo. Detto in altri termini: il Tibet è affare cinese e soprattutto il Tibet deve completare il processo di cinesizzazione.
Spenta l’indignazione globale e soffocate le proteste del 2008, la Cina ha sistematizzato la repressione con l’arrivo nella regione di Chen Quanguo. Tra il 2011 e 2016 il funzionario ha trasformato il Tibet in uno degli Stati di polizia più pervasivi del mondo, usando controlli capillari e incentivando le denunce tra famigliari per portare il controllo dentro le mura domestiche. Il modello di Quanguo è stato poi implementato e affinato in Xinjiang, con esiti distopici.
La sensazione di molti è che il vasto sistema di controllo potenziato nella regione a maggioranza musulmana sia pronto per tornare in Tibet. Lo spettro di una nuova rete di campi di detenzione e l’annacquamento della minoranza aleggia su tutta la regione. A maggio è entrata in vigore una nuova legge, il “Regolamento per l’istituzione di un’area modello per l’unità etnica e il progresso nella regione autonoma del Tibet”.
Ufficialmente il provvedimento impone la partecipazione di gruppi etnici non tibetani a tutti i livelli di vita pubblica, dal governo locale alle scuole, passando per centri religiosi e aziende. In sostanza è un altro colpo alla minoranza tibetana. L’attenzione deve infatti ricadere sulla formula “unità etnica”, premessa per una nuova serie di misure repressive che accelerino il processo di assimilazione all’interno del socialismo con caratteristiche cinesi passando attraverso pratiche di cancellazione etnica e culturale.
Una battaglia che la Cina vuol condurre su più fronti. In primo lungo “occupando” il Tibet. Negli ultimi anni Pechino ha favorito le migrazioni interne incentivando l’arrivo di cinesi di etnia han, il gruppo prevalente in Cina, per ridurre sempre più il peso delle minoranze. Un’infiltrazione che punta a colpire anche le famiglie. Funzionari locali hanno infatti iniziato a tenere riunioni pubbliche per spingere i matrimoni misti tra Tibetani e Han.
Un secondo fronte ha a che fare con l’aspetto religioso, come simboleggia la decisione di vietare l’esposizione delle bandierine di preghiera varata a giugno. Il buddismo è infatti uno dei pilastri dell’identità tibetana. In un rapporto sulla libertà di culto del dipartimento di Stato americano pubblicato pochi mesi fa si legge che Pechino fa un uso massiccio di esercito e polizia per monitorare i monasteri e che dal 2016 in Tibet 17 mila monaci sono stati sfrattati dai centri di culto, mentre molti di loro sono stati sottoposti a una rigorosa formazione per diffondere “culti patriottici”. Non a caso Xi Jinping ha recentemente ribadito che il buddismo tibetano deve adattarsi al socialismo cinese.
Un altro terreno di scontro è rappresentato dalla lingua e dall’educazione. Il Pcc considera infatti gli idiomi diversi dal putonghua (il cinese mandarino), come un veicolo del separatismo. Una forma oppressiva vista di recente anche nella provincia dell’Inter Mongolia. Parlando delle scuole Xi Jinping ha spinto sulla necessità di «piantare i semi dell’amore per la Cina nel profondo del cuore di ogni giovane». Un’operazione che vede in prima linea gli stessi Han arrivati dalla Cina centrale, inseriti nei vertici del sistema scolastico locale per diffondere il mandarino.
Un quarto e ultimo fronte è quello che riguarda gli appoggi che i tibetani possono trovare all’estero. Quest’anno la Repubblica popolare ha lavorato per far entrare nella sua orbita il vicino Nepal. Per i tibetani questo è particolarmente grave per la firma di un trattato di estradizione che regola il rimpatrio dei rifugiati verso la Cina. Firma arrivata anche grazie alla visita diretta di Xi Jinping a Katmandu. La partita decisiva per il Tibet potrebbe giocarsi molto presto, in particolare intorno alla figura del Dalai Lama che lo scorso 6 luglio ha compiuto 85 anni. Pechino è intenzionata a pilotare il processo della sua reincarnazione perché questa sia conforme alle leggi cinesi, un colpo che minerebbe alle basi l’intero sistema culturale tibetano.