Per chi scrivi? Questa tra le domande è una delle più imbecilli. La risposta (non si risponde a domande così), se proprio vuoi darla, non puoi che inventarla, sapendo che è falsa. Se non ti suona falsa è certamente la risposta del fesso che sei, spesse volte perfino esaltato nel darla.
Ma in questo tempo da amanti dai difficili incontri, anche impossibili, tutti i “per chi” tramortiti son morti, vivissimo è “a chi”. È un piccolo regalo che questo tempo ti fa, anche se non è, questo, un tempo disposto a regali, ma sì all’istigazione.
Ti punge e, sii sincero, tu reagisci, ti rivolti come un adolescente intoccabile. Ah, sì. E già che ci sei ne approfitti. Ma sì, come no, ti vieni in mente tu, primitivo infatuato. La distanza ti rende lecito ogni incontro, puoi idoleggiarlo nella mente. Anzi è la condizione, la distanza, per un nuovo stilnovo. Puoi vagheggiare ovvero contemplare quel che ti manca. Sei già sul tuo vascello e già lontano, solo, senza nemmeno Guido e nemmeno Lapo, ma con i tuoi mezzi di bordo a ragionar di lei, anzi a fare di lei la tua ragione che anche se sragiona è ragionevole.
Ecco: a chi scrivi? Non dico soltanto le parole ma te stesso: a chi ti scrivi? L’adolescenza ne seppe qualcosa, se non già tutto. Ma sì, mi hai capito. A chi scrivi? All’amore irraggiungibile. Quello che ti allertò l’adolescenza, come se avessi in te una sentinella, che anche di notte era sveglia e si appartava coi sogni, anche verissimi, e ti svegliavi spesso innamorato. Lei aveva vent’anni più di te.
Lei? Esse. Sto parlando di amori furiosi perché pazzi, insulsi, irragionevoli. Ma, insomma, quanti, anche vietati, quando la distanza era tante distanze, d’anagrafe, di stato, d’educazione, di coscienza morale, d’altro mondo nel senso di cosa dell’altro mondo, di cosa mai vista. E quante cose mai viste vedesti a occhi chiusi.
Passioni signorili, ma tu per età non eri ancora un signore. Le tue passioni come lettere non scritte però molto pensate svolazzavano nell’aria come se tu spargessi grano alle colombe, le tue passioni candide, non cupe, non torve e nemmeno tortuose, splendenti, con gli occhietti rossi, quel rosso passionale.
Ti rendevano il mondo attraente, ti erano sempre presenti, ovunque tu fossi, ovunque tu andassi, il pensiero era quello. Infatti capisti cosa fosse il pensiero: il pensiero era bellezza femminile entrata in testa, che dalla testa irrora tutto il corpo. Insomma, nella testa avevi una sorgente di bellezza. Avevi di che bere in abbondanza, solo, preso per incantamento e messo sopra il tuo vascello.
Inventavi storie con bellezze protagoniste e tu con loro? Fu questa l’origine dello scrivere? In generale è così. In origine fu forse così: per farsi belli, per farsi dei, per mimetizzarsi, per ordire, rampicanti come l’edera, anche per soffrire, navigando distanti per non vivere da vicino come bruti, per farsi eroi, anche sotto sforzo, sottoposti a imprese dalle quali ritornare tra le braccia aperte.
Sì, le storie, ma le storie sono sempre fasulle se non sono vere, sono materiale da trastullo senza concretezza, quasi come liberarsi della materia di cui siamo fatti. Perché in principio erano cantate? Per muovere le labbra, la bocca e, in bocca, la lingua. La lingua che noi parliamo nasce dalla lingua con la quale parliamo, è vero o no?
E allora, la lingua è la mia lingua, la bocca la mia bocca, le parole sono il suono dei loro movimenti. Allora canto ossia mi scrivo a voce, e leggermi sarà per lei così: avere la mia bocca sulle labbra e la mia lingua in bocca. E allora, fricate e rotolate, o mie parole consonantiche, soffiate a fiato libero, o vocali gaudenti. Insomma, pronunciatevi.
Sì, la pronuncia, la piccola libreria dei primi libri, quella coi tre scalini a scendere. Ci andavi per il libri? La BUR, sì la BUR tascabile, popolare, sì. No, per lei. Lei aveva una trentina d’anni, il doppio dei tuoi, la libraia. Elegante, sempre in tailleur grigio, quando più chiaro quando più scuro, le scarpe a tacco alto, nere come la montatura fina degli occhiali, le pupille grigie, i capelli in tiro, biondi, certamente lunghi ma raccolti in uno chignon alto, la cipolla.
Vestiva da racconto (questo) però per davvero. Pacchianeria di classe. La rivedrò in certe foto scattate da Helmut Newton. Ogni cosa della nostra vita finisce dentro l’arte per ritornar distante finalmente, quando è stanca la carne e hai scritto e letto tutti gli amori.
Tu allora volevi solo che prendesse lei in mano il tuo libro, quello che sarebbe stato tuo, il panetto di libro, burroso nella morbidezza e nel colore beige del burro buono e molto ben pascolato nelle alte quote di autori garantiti dalla morte e dal fuori diritto perlopiù. Dicevi indicandolo: questo. Se stava più in alto sullo scaffale dicevi: quello. Lei lo scalzava dagli altri con l’unghia e il libro pendente le sveniva nella mano.
Un giorno riuscisti a osare, le chiedesti: di che parla? Ora voglio esagerare, ti aspettavi dicesse: di me. Ma non sto esagerando, quei libri poi, a casa, ti parlavano di lei. Ma anche prima di arrivare a casa portavi con te un suo qualcosa, più dell’anima: il fiato. Perché lei soffiava sui bordi alti della bustina di carta perché si distaccassero e la bustina si aprisse, gonfia del suo fiato.
Avresti preso il libro con una mano e la busta con l’altra, torcendo in alto i bordi come si fa con le buste da fare scoppiare. Non l’avresti fatta scoppiare. Ma lei aveva già infilato nella bustina il libro che, ormai tuo, eri tu, la bustina era lei.
Un giorno, anzi una sera piovosa a gocce fini di nebbia sciolta, entrasti con un titolo in testa, Garzanti tascabile, e lo pronunciasti. Proprio quello tra tanti ma senza farlo apposta. Poi, dopo, ti parve che l’avessi fatto apposta. Pronunciasti il titolo così come era scritto: Cròger, Tonio Cròger. Lei forse capì, desideravi quel libro cioè lei. Lo capì. Il bello dello scrivere è questo che puoi prendere decisioni arbitrarie e quell’arbitrio diventa legge, legge scritta. Ah, dispotismo, quanto t’ho praticato.
Lei, con le unghie del pollice e il medio, toccò gli angoli delle mie labbra mentre le sue pronunciavano con correttezza quel cognome. Ci mise il suono di tutta sé stessa, il palato ci mise, e la lingua, poi una distensione delle labbra e poi una certa apertura della bocca che emise il suono, e a me parve più accogliente che emittente. Con le unghie, mentre lei pronunciava, distese le mie labbra e poi le contrasse un poco perché aprissi un poco la bocca.
Mi insegnava a mano libera la pronuncia. Che alla grossa, tutti lo sanno, è un po’ così: Crégah… (ma non rende, le vocali sono tutte una mescola di vocali). Solo io non sapevo. La sua mano pendeva dalle mie labbra, però.
Capii anni dopo, anzi adesso capisco che lei sì, sapeva. Adesso che ho scritto “pollice e medio”, ricordando bene, perché così andò. Lei sapeva, lo sapeva prima, di dover tenere libero l’indice perché con l’indice premette un poco sul mio labbro inferiore perché la mia bocca un poco si aprisse restando un po’ aperta per pronunciare quella specie di “a” finale sospirosa, un po’ lunga e a dissolvere.
Lo sapeva, quindi sapeva tutto. Non solo, non lo fece con l’unghia ma col polpastrello. E non una ma più volte risuonò tra noi quel nome finché insieme godemmo della stessa pronuncia. Se ci penso…
È quello che sto facendo. Ma devo ripeterlo “se ci penso”, perché significa qualcosa quel “se”. Il “se” mi è rimasto per tutta la vita. Anche il libro (che non ho mai letto), ma il “se” di più, anche perché io rimasi e rimango fermo a quel “se”. Esiste un “per sempre” anche di quello che non accadde mai. Non ho mai aperto quel libro perché, se qualcosa non accade veramente, è inutile e anche sconcio fare accadere la sua metafora.
Insomma, volevo dire: sto scrivendo a lei. Insomma, volevo dire: la lontananza. Allora, tornando a noi, a questo tempo non amabile: possiamo, invece, liberamente amarci in questo non amabile tempo. La licenza ce la dà la lontananza come la dette ai trovatori dell’amor da lontano. Possiamo, è lecito, abbiamo l’alibi.
Tutte e tutti lo sanno, lo sappiamo. È anche lecita quell’altra cosa altrimenti stucchevole e penosa quasi: pensarsi. E con quanta partecipazione e animosità. Animosità, sì, l’ho scritto prima: quel fiato ad ampio respiro, a lunghi raggi. Sì, perché noi ci raggiungiamo a raggi, i raggi ingenui, ingeniti in noi, da noi generati, fondenti e fluenti dal plesso solare, alimentato dai nostri desideri bassi ma salienti.
Il meglio nasce dal basso, nevvero? Eccoci, noi oggi adolescenti di varie nostre età, in questo tempo cantato ancora da Jaufré Rudel, un confidenziale, un crooner. Provaci ancora, Giof, fino a farci godere nel gelo del prossimo inverno scontento: «…non godrò mai d’amore se non godo di questo amor lontano».