Come nascono le frasiLe parole sono l’ombra di una luce, in principio

Sono come stelle, anche cadenti, comete, anche abbagli del sole a raggi pungenti o tra le persiane come strisce di documenti lucenti distrutti. Galassie ovviamente, vie lattee nelle quali siamo immersi, polveri interstellari, anche gas eccetera... puntini puntini luminosi, scie, velature opalescenti

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“Ecco, ricordiamocelo…”.
La frase è conclusiva, sto parlando con me, ricordiamoci quello che ho in mente, mi servirà… ma… ma è come se non fosse conclusa, la frase, continua d’inerzia, salta sui puntini di sospensione come sui ciottoli in un fiume (la frase attraversa un fiume?), quasi perde l’equilibrio, torna indietro, ripete sé stessa: ecco, ricordiamocelo… Di nuovo i puntini, li vedo (sono io la frase?) vedo rotolare queste perline nere, sfilate chissà da quale collana…
Dovrei scrivere in versi tutto questo?
“Ecco, ricordiamocelo…”.
Lo dicevo, cioè lo pensavo, tra me e me, questo è il punto: me e me (la punta di un cuneo?). Lo dicevo a me: ecco ricordiamocelo. Era un appunto mentale.
Mi colgo di sorpresa. Cioè, mi sono dato del noi. Ricordiamocelo, noi. Io e chi?
Non ho detto: ricordamelo. Cos’è, mi darei del tu? Innaturale.
Due me, uno che affida il ricordo e l’altro che riceve il ricordo in affidamento, anzi tre: un terzo me, io, la prima persona che dice a me, la seconda, ricordalo a me, la terza. Cioè, sarei in tre. Ma non ho detto né pensato di dirmi: ricordalo a me.
Qualcuno in sé direbbe “ricordalo a me”? Non lo direbbe.
Direbbe come ho detto: ecco, ricordiamocelo.
Si può dire “ricordiamomelo”? Tutto si può dire, ma è brutto assai. Incredibile, il correttore non me lo sottolinea rosso. Lo riscrivo: ricordiamomelo. Non lo sottolinea.
Più esattamente avrei dovuto scrivere (dire, pensare): ricordomelo (con l’accento tonico sulla seconda oppure sulla terza “o”, se vogliamo, se noi vogliamo). Questo sì, il correttore lo sottolinea anche se non è un errore. È la forma stravecchia di “me lo ricordo”, ma si riferisce a cosa passata, a un prima. Il mio ricordo rinvia a un poi, da ricordare poi, memoria futura, sarebbe “ricordomelò”, con l’accento alla fine, verso il futuro. Ma io e me stesso cosa siamo? Una coppia comica? Alle volte. Ma quanto possiamo andare avanti così, spostando tempi e accenti?
Dovrei scrivere in versi tutto questo, andando a capo.
E tutto questo sarebbe un’altra cosa.
Sai cosa intendo.
Le tue dita intendo, le tue dita, ognuna diversa dall’altra in lunghezza, i liberi versi delle tue dita a mano libera, mia cara.
Ma non divaghiamo appresso al divagare delle dita.
Le parole sono già una traduzione? Già in prima istanza?
Come avrei dovuto tradurre quella urgenza mentale? “Devo ricordarmelo”, così? Devo? No, non mi viene. Non ho uno sguattero in me. Poi, quel devo è forse un “voglio”. “Voglio ricordarmelo”, come mi suona? Non mi suona. Cos’è? Mi pongo un obiettivo, una meta, mi dispongo a un desiderio? No, semplicemente mi dico: questo lampo mentale, ricordiamocelo.
E siamo daccapo, mi do del noi. Ma non come se fossi frammentato, anzi, il contrario: come se fossi compatto. Ho in me una schiera di me coalizzati. Ma certo, come non pensarci prima?
Altro che due, altro che tre, siamo tanti. Abbiamo tutto un mondo da amministrare, uno non basta né due né tre, ce ne vogliono tanti di me, quindi in me non ho un me, ho un noi. In sé non si ha un sé ma un loro?
Tra le tue mani, forse, sono uno, anzi senza forse ma non divaghiamo. Sì, forse dovrei scrivere in versi per rivedere, forse, le tue mani, le tue dita di diversa lunghezza su di me, pagina nuda.
Troppi forse.
Ma ritorniamo a noi, a me, pagina scritta. Ecco perché “ricordiamocelo”. Adesso capisco perché sono anche contraddittorio: lo sono perché non lo sono, io non lo sono, essi lo sono, sono variegato, e anche in maniera divertente, tra noi si scherza, è tutto un diversivo.
Cosa siamo, una truppa, una schiera, un plotone, un parlamento monocolore, una tirannia aumentata, un consesso orgiastico, un conclave egoistico, la squadra in campo e la panchina lunga, un sacchetto di biglie? Non lo so, però facciamo un suono di parole.
Cosa ho detto prima, adesso che ci penso? Ho scritto (detto, pensato, adesso che lo scrivo): “questo lampo mentale, ricordiamocelo”, questo lampo, ah, ecco.
Le parole, cosa sono in principio? Sono come stelle, anche cadenti, comete, anche abbagli del sole a raggi pungenti o a strisce tra le persiane come strisce di documenti lucenti distrutti (raccogliamo parole già usate), come Venere solitaria occhieggiante pianetina, come la Polare, chiodo fisso lassù, come no, come la solita Luna, la luninosa Luna che sempre riflette, tutta occhiaie e pallore. E le frasi cosa sono? Galassie ovviamente, vie lattee nelle quali siamo immersi, polveri interstellari, anche gas eccetera… puntini puntini luminosi, scie, velature opalescenti.
Non ripetiamo – dal primo boato che ha espanso l’Universo – che gesta universali di grandezze variabili. Sì, ogni piccola frase è sempre propagazione di universo. È normale, palese, solare per dir poco, è lampante.
Si sta così, come sdraiati sull’erba nera, mi pare, non cupa, solo nera, anche morbida e accogliente, anche lucida, colpita dalle luci, si sta così, e appaiono questi squittii di scintille, codine luccicanti, cerini in mano, rimbalzi fulgenti come sull’oro e quasi sonori, tende in fiamme, fiamme di candele che discendono scale a tortiglioni, a chiocciola, torce accese nei pozzi, ammazza oh, fasci e oscillazioni di vaghezze fioche in una nebbia, aloni, unghiette d’eclissi, display verdi e rossi, anche blu, insomma tanta roba che brilla, tutta una chincaglieria nitente (che anche tintinna, la senti?).
E noi, ogni minimo sprazzo, ogni goccetta di luce, ogni versamento di fusione, ogni fiume di lava, ogni schicchera elettrica, ogni barbaglio, ogni sfavillio lo traduciamo in parole, in frasi.
Dopo aver pronunciato, da neonati non ancora parlanti, oh ah eh uh ih, aggiungiamo consonanti e mutismi dell’acca, articoliamo.
Le parole, infatti e in verità, non esistono, esiste qualcosa che brucia. Le parole sono l’ombra di una luce in principio. Chi è che fa l’ombra? Noi che stiamo in mezzo. Fu luce la parola, luce che in noi si incenerisce. Noi raccogliamo questa cenere alfabetica e la teniamo insieme con lo sputo, la nostra saliva mista alle parole che pronunciamo.
Come diceva mio padre (guarda tu cosa mi viene in mente adesso, e adesso comprendo): de gustibus non est disputandum, de gustibus est sputazzella. “Ecco, ricordiamocelo…”. Era questo che dovevamo ricordare? Non prima, adesso sì. Quello che dovevamo ricordare prima (per dopo) l’abbiamo dimenticato divagando, attratti da questa tirata. Sì, dimenticare per inventare tutt’altro: da qui partirei con un’altra tirata, ma finiamola qui.
Partirei? Prima persona? Sono tornato singolare?
E così parti, per dove? Seh! Buonanotte…

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