Londra, Buckingham Palace Road, Biblioteca Interna Salomon Brothers, autunno 1997, notte fonda. Sto girando tutti gli scaffali da ore, ma non riesco a trovare il bilancio che mi serve.
Non dormo dal giorno precedente e so benissimo che non riuscirò a tornare a casa prima dell’alba; con un po’ di fortuna forse riuscirò ad abbracciare il cuscino dopo quasi quarantotto ore.
Meno male che in una sala riunioni sono riuscito a trovare una scatola abbandonata di butter cookies di pessima qualità e adesso ho in corpo qualche briciolo di energia in più da sfruttare. Ogni tanto il silenzio notturno è interrotto dal frusciare avido di pagine che proviene da scaffali a qualche decina di metri di distanza, probabilmente un altro ectoplasma di analista al primo anno alle prese con la sua ansia da performance. Proprio come me.
Questi ritmi di lavoro sono considerati pura follia da molti ma, in verità, a me non pesano poi tanto: certo sono fisicamente al limite, ma non corro il rischio di addormentarmi, la tensione per la consegna del lavoro che mi hanno affidato mi tiene ben sveglio.
Forse mi sto abituando al lavoro di analista in una banca di affari americana: anche se sono passate solo poche settimane, i tempi scintillanti di New York e del training program sembrano lontani anni luce e, adesso, la pesante routine londinese sta smontando pezzo dopo pezzo tutti i bellissimi ricordi generati in quelle settimane vissute nella Grande Mela.
Numeri, numeri, numeri, alla fine il ruolo del primo anno di analista prevede questo come dieta. Né più né meno. E tu sputi l’anima, ne incolonni a migliaia ogni giorno, meccanicamente, cerchi di farti piacere dei compiti noiosissimi, che si ripetono ogni giorno sempre uguali.
Tu sei solo un tassello all’interno di una macchina che deve spremere tutto ciò che incontra: menti, cuori, ossa, portafogli dei clienti e sicuramente sudore e sangue dei più giovani; ma tu resisti perché ti senti parte di un’élite, senti di assomigliare a Gordon Gekko anche se probabilmente, a volte, saresti più in sintonia con il personaggio di Buddy Fox. E cerchi comunque di migliorare, di fare meglio il tuo lavoro, per scalare posizioni nell’indice reputazionale del floor, in attesa della grande occasione per provare a far parte della cerchia dei migliori.
E se sei fortunato, oltre che bravo, dopo mesi passati nell’ombra, prima o poi ti viene offerto di diventare il direttore d’orchestra in uno dei rari modelli previsionali e di provare a comporre un business plan in dollaro maggiore.
In questo caso non ci sono più oscuri scaffali polverosi da perlustrare alla ricerca di bilanci scomparsi, ci siete tu e il tuo computer che, in bella vista, iniziate a rifulgere di un’aura particolare. Chi controlla il modello controlla i numeri e gestisce il banco, e allora, se possibile, tu aumenti ancora di più la tua determinazione, la tua sete di performance sembra non avere fine e ti dirigi concentrato al leggio con un nuovo spartito da interpretare.
Chiudi gli occhi, respiri profondamente, batti l’indice sulla tastiera-bacchetta e, come novello von Karajan, attacchi la tua prima sinfonia.
Ci sono i ricavi alla sezione fiati, le spese operative agli archi, gli investimenti alle percussioni e, come primo violino, la generazione di cassa, solista preziosa e protagonista indiscussa dell’assolo finale.
Nonostante l’estrema dedizione la trama musicale inizia titubante, con l’esercito dei dubbi che riesce facilmente a contenere il manipolo sparuto delle certezze. Alcuni suoni rimbalzano discordanti come in un’opera cacofonica, i nervi sono tesi e allora cerchi di pensare solo a ripetere il movimento che hai imparato per mesi, solo quello e nulla più. La migliore esecuzione costruisce la sua sicurezza passando prima per sentieri conosciuti, facendo il pieno di motivazioni per poi avventurarsi nei territori inesplorati dell’improvvisazione e del jazz.
I suoni si susseguono e, a mano a mano, la strategia di gioco sembra funzionare: non si rincorrono più note spaiate, anzi, iniziano a raggrupparsi ordinate e a dar vita ai primi accordi. Ballano e sembrano divertirsi insieme, come l’avessero fatto da sempre. Le dita cominciano a muoversi agili e si inizia a intravedere una melodia. Ti senti euforico, pieno di energia, prendi coraggio e, all’improvviso, al culmine del momento più importante del concerto, senti che qualcosa sta succedendo, la magia inizia a compiersi.
I numeri cominciano a parlarti e a raccontarti storie che sono più rivelatrici dell’ultima pagina di un giallo avvincente. Ti svelano particolari di business che il management ti ha taciuto, ti descrivono i comportamenti e le passioni di clienti che non conosci, ti narrano strategie di investimento che hanno avuto successo oppure ti sussurrano di progetti che non hanno prodotto valore e che, forse, sarebbe stato meglio accantonare.
È un nuovo codice che inizia a rendere tridimensionale la piatta superficie del monitor, ti racconta di storie, di sfide, di persone, di ragionamenti di gladiatori e delle loro battaglie nell’arena del mercato.
Riesci a visualizzare fisicamente la trama della storia che stai raccontando: una storia che parte dal passato dell’azienda che stai modellando, per svilupparsi poi in un movimento di futuro prospettico, i cui diversi scenari possibili dipendono da te, dalla tua fantasia e dalla tua sensibilità.
E da questo momento ti rendi conto che il rapporto con i numeri non sarà più una questione di cifre e di operazioni ma sarà, ogni volta, come aprire un libro e gustarsi un racconto in un bel pomeriggio primaverile, curioso delle emozioni e delle sensazioni che ti regalerà, come ascoltare l’attacco di una nuova canzone dopo i secondi di attesa dalla partenza dell’incisione, come contemplare un quadro che racconta una bellissima storia, la più bella di tutte, quella di una crescita.
Col passare del tempo, con lo sviluppo di carriera, questo legame, quasi poetico, con i numeri il più delle volte si perde, annegato nell’ansia distruttiva della necessità di portare risultati a ogni costo o, perlomeno, a farne apprezzare l’intenzione.
Nel mondo industriale degli adulti non c’è spazio per questo legame con i numeri. I numeri vanno solo usati, piegati agli scopi del momento. Per fortuna a me questa involuzione non è capitata, e sono rimasto un adolescente sognante, membro attivo della confraternita dei matematici estinti.
«Se torturi i numeri abbastanza a lungo, confesseranno qualsiasi cosa»: così Gregg Easterbrook, giornalista e scrittore statunitense, cristallizza per noi una grandissima verità: alla fine tutto ciò che è quantitativo e misurabile sa dotarsi di una cocciutaggine resiliente per cui, prima o poi, riesce a rivelare la realtà dei fatti, che ci piaccia o no.
Il problema è che nelle aziende circolano sempre numeri buoni per tutte le occasioni e, per ogni numero, molteplici verità a prezzo di saldo. Dietro una proliferazione spinta di tabelle e di report analitici, a volte c’è, infatti, un lucido disegno a spostare l’attenzione dai temi essenziali, e quindi potenzialmente pericolosi, a inciampi inconsistenti, di più comoda e facile gestione.
Sono proprio questi casi il campo di applicazione principale della legge di Truman, sorella minore della più nota legge di Murphy di blochiana memoria, che recita placidamente: «Se non li puoi convincere, confondili».
Nelle organizzazioni aziendali i numeri sono infatti delle trincee quantitative che ogni dipartimento cerca di erigere a protezione della propria fetta di territorio. Più la zona da difendere è ampia, più sarà facile una proliferazione quasi mormonica dei numeri, atta a densificare una cortina fumogena rassicurante; più invece la responsabilità è specifica e limitata, con pertanto pochi metri quadrati esposti alla vista in campo aperto, più i numeri saranno tenuti nascosti, alla fine di noiosissime presentazioni.
Ci sono poi diverse tipologie di cifre: quelle che pesano, normalmente riferite al budget, quelle da interpretare, basate invece sulle indagini di clima interno, quelle da approfondire, che danno luogo a ulteriori passaggi al frullatore fino a farle diventare inconsistenti come il miglior albume, o, per finire, quelle rivelatrici, come nel caso delle survey sul livello di soddisfazione del cliente.
Per quanto mi riguarda, i numeri sono semplicemente una fantastica occasione per avere un’ultima parola, chiara, trasparente e sintetica nel codificare le varie realtà aziendali. I numeri sono sempre amichevoli, e anche quelli che mi piacciono meno mi suggeriscono sempre indicazioni di come volgere al meglio la situazione. Anche perché, alla fine, sui numeri ci puoi sempre contare.
Se i numeri permettono di visualizzare alcuni fenomeni aziendali, i concetti e le leggi fisiche, invece, sono super efficaci per rappresentare le dinamiche relazionali all’interno dell’azienda. L’attrito per esempio è la forza che si oppone al movimento di un corpo su una superficie e tale forza dipende da particolari condizioni come l’adesione e la coesione dei materiali che interagiscono tra di loro.
Analogamente, in un’organizzazione di esseri umani l’attrito non è altro che la somma di tutte le resistenze al cambiamento che nel corso degli anni si sono stratificate e rafforzate in convinzioni che, dapprima sussurrate, hanno aumentato la loro intensità come onda che si gonfia, fino ad arrivare a coprire tutte le altre voci e a impedire qualsiasi nota fuori dal coro.
Tipicamente le catene che si formano e che, alla fine, possono deteriorare o impedire un miglioramento delle performance sono proprio quelle che trovano la loro forgiatura migliore nella ripetizione ossessiva degli stessi comportamenti, degli stessi atteggiamenti, del reiterato rifiuto al cambiamento e alla flessibilità.
In realtà, in ogni mercato altamente competitivo, la capacità di adattarsi e di distinguersi dagli altri sono fattori determinanti per il raggiungimento della crescita. Anzi, la crescita rappresenta di fatto il numero per eccellenza che attesta lo stato di forma di un’azienda, un indicatore sintetico e affidabile come la temperatura corporea in un essere umano.
La legge fisica per eccellenza è la celeberrima E=mc2, grazie alla quale un Einstein in stato di grazia ci comunicava che l’energia ha una relazione inequivocabile con la massa e la velocità della luce.
Analogamente, nelle aziende, l’energia – che possiamo tradurre nella capacità di far crescere e sviluppare il business in modo organico e industriale – dipende dalla relazione profonda fra tre variabili: l’ambizione della visione aziendale, la capacità di tradurla in comportamenti concreti e consistenti, rafforzati da una determinata propensione al cambiamento.
G (Growth)= a (Ambition) *e (Execution) ^c (Change)
Queste variabili sono legate tra di loro tramite connessioni che funzionano sia a livello aziendale sia a livello personale. Se volessimo descrivere a parole la formula sopracitata potremmo dire che la crescita per un impresa è determinata dalla capacità di saper concretizzare in modo nuovo la propria aspirazione.
Tanto più l’intensità delle tre variabili indipendenti è presente in un individuo o in un’azienda, tanto più la crescita sarà impetuosa. L’unità di misura di questa crescita non può che essere il valore generato, sia esso economico o reputazionale, oppure collegato all’impatto sociale che ne deriva.
Quanto più la visione di un’impresa – intesa letteralmente come capacità di influire su ciò che la circonda, persone e cose – sarà potente, tanto più alta la probabilità che il suo successo, e la conseguente crescita, si concretizzino.
Nel caso della visione di Microsoft abbiamo potuto apprezzare una connotazione quasi divina ma, se andiamo a verificare altre aziende che hanno saputo entrare veramente nel cuore delle famiglie, troviamo la stessa forza impetuosa: “Creare una vita quotidiana migliore per la maggioranza delle persone” (IKEA), oppure “Siamo un’azienda famigliare che punta ad avere un impatto positivo sulla comunità” (Ferrero), per concludere “We make sports accessible to the many” (Decathlon).
Più l’ambizione di colpire un bersaglio importante è ampia, più il desiderio di lasciare un segno è intenso, più la probabilità di concretizzare una performance migliore aumenterà.
Ovviamente la capacità di sognare in grande deve unirsi a una straordinaria determinazione realizzativa. L’esecuzione, nel suo significato letterale di attuare e quindi creare, è una delle capacità distintive che fanno germogliare i semi del successo e, quindi, della crescita.
Più l’esecuzione è mossa da una feroce ricerca del giusto mix tra pragmatismo ed eccellenza, da una relazione bilanciata tra semplicità e utilità, da un umile rispetto per il cliente finale, più la possibilità di progredire e creare un vantaggio competitivo sarà garantita.
È il passaggio dal mondo delle idee e del possibile alla dimensione del reale: ci sono tanti modi per incarnare un desiderio in un prodotto e in un servizio. Spesso il modo in cui questo processo viene strutturato è altrettanto importante quanto la bontà dell’idea che lo ha generato: il saper rinunciare alle scorciatoie, il non aver paura di prendere la decisione che pretenderà il tributo di fatica maggiore, l’ossessiva ricerca del meglio per l’utente finale, la persistente, feroce determinazione nel considerare tutti i dettagli cercando però di semplificarli in un insieme ad alto tasso di praticità sono tutti ingredienti che lavorano alla massimizzazione del risultato e quindi della crescita.
Per finire, è evidente che ambizione ed esecuzione possono trovare una straordinaria accelerazione se sublimate dal grado di propensione al cambiamento presente in un’organizzazione. Tanto più il desiderio di intraprendere sentieri non battuti o di percorrere rotte non convenzionali è vivo nella cultura aziendale, maggiore la probabilità di realizzare velocemente il prodotto di ambizione ed esecuzione.
Di tutte e tre le variabili, sicuramente questa è la più rara, pertanto andrebbe maggiormente coltivata. Spesso nelle imprese si dedica molto tempo alla visione e ai meccanismi esecutivi collegati, tralasciando o non considerando come promuovere e favorire un atteggiamento accogliente nei confronti della trasformazione, del cambiamento, della possibilità di esplorare e magari sbagliare.
È come se un allenatore di calcio spiegasse la propria filosofia di gioco e gli obiettivi della squadra, li strutturasse in schemi e moduli ben precisi ma impedisse ai propri giocatori di provare a esercitarsi, a cambiare i propri automatismi per sondarne di nuovi. L’attitudine al cambiamento, in realtà, è uno straordinario catalizzatore di performance. Se i vertici aziendali capissero fino in fondo questa semplice verità, trasformerebbero il dovere di cambiare quando è necessario – tipico di un retaggio bloccante molto comune in tutte le industrie – nel diritto di trasformarsi liberamente per poter vincere, più frequentemente e molto più velocemente.
La duttilità della formula GAEC sopracitata è che funziona benissimo anche se si passa da un contesto macro a uno micro, da uno aziendale a uno personale. In questo secondo caso per crescita si intende afferire alla dimensione dello sviluppo personale, sia esso di competenza, di managerialità o di sensibilità umana.
L’ambizione si riferisce, invece, alla volontà di determinare e migliorare la propria collocazione all’interno del mondo lavorativo o di un contesto sociale più allargato, dalla determinazione di voler lasciare un segno, una traccia, un contributo. Lo sviluppo personale non è qualcosa che dipende da elementi esterni ma senza dubbio dalla propria spinta interiore al miglioramento.
Nella situazione atomica dell’individuo, la capacità di soddisfare la propria ambizione di sviluppo dipende dalla capacità di mettersi alla prova e di dedicare tempo ed energie nervose alla sua realizzazione. Qua la parte esecutiva ha molto a che fare con il mettersi in gioco, caparbiamente, ogni giorno, senza paura e con estrema dedizione.
Affrontare quello che c’è da fare cercando di farlo al meglio, facendo attenzione ai particolari, a quello che ho fatto bene e a quello che non ho fatto, non avendo paura di scegliere il percorso più faticoso. Stiamo affrontando la palestra di roccia della vita, è normale fare fatica e avere male ai muscoli, ai tendini, alle mani.
Parafrasando l’esperienza musicale, è importante partire senza dare troppa importanza alle prime note dissonanti, è necessario perseverare e, dopo lunghi periodi di esercizio, arrivare alla dimensione di ottimi suonatori e, più tardi ancora, dopo aver alzato ulteriormente il livello, godersi lo status di direttori d’orchestra.
È evidente che la capacità di cambiare, modificarsi e trasformarsi può solo accelerare questo processo di apprendimento continuo. Il non dare nulla per scontato, il rinfrescare continuamente la nostra apertura mentale, il rinnovare la nostra curiosità, l’obbligarsi ad assumere diversi punti di vista prima di pietrificarne uno ed essere comunque sempre pronti a sgretolarne la trama, se innescati da un dubbio.
Anche i dubbi, come i numeri, sono cocciuti e, se filtrati da un velo di pragmatismo, possono essere efficaci complici di miglioramento e di crescita.
La crescita, pertanto, sia aziendale sia personale, non avviene per caso. È la conseguenza, quasi matematica, dell’intensità della presenza di ambizione, esecuzione e propensione al cambiamento. In un’organizzazione che promuove la crescita personale dei propri dipendenti, lo sviluppo sarà sempre assicurato.
Così come di casa sarà una delle compagne più sincere e leali nella mia esperienza di essere umano: la fatica e il diritto a praticarla di ognuno.
da “Get in the Game. La sfida della crescita”, di Alberto Calcagno, Mondadori, 2020