I’ve always loved fried chicken. But the racism surrounding it shamed me – The Guardian, 13 ottobre
Questo articolo di Melissa Thompson spiega in modo molto chiaro e misurato il tema dell’appropriazione culturale e del razzismo in ambito gastronomico/culinario. Negli ultimi mesi siamo stati assaliti da polemiche, spesso molto sterili, sull’immaginario e i nomi di certi cibi, magari icone della nostre infanzia che non abbiamo mai messo in discussione e che invece l’ondata di consapevolezza scatenata da Black Lives Matter ci ha obbligati a riconsiderare sotto una luce diversa. Qui Thompson scrive del pollo fritto nella cultura anglosassone, prima statunitense e poi britannica. Lasciamo da parte il pollo fritto toscano, che non c’entra niente e non può fungere da metro di giudizio di alcunché, in questo caso. Nell’articolo si racconta infatti come il pollo fritto nella cultura anglosassone sia diventato oggetto di un pregiudizio, quello che dipinge l’associazione automatica neri-mangiatori di pollo fritto, anche sulle basi di vecchie campagne statunitensi, più o meno dichiaratamente razziste, che in passato hanno insistito su questa equazione. Il nero che si abbuffa con le mani, che mangia cibo povero, e che magari lo fa nel classico fast food KFC con il bianchissimo colonnello sull’insegna. Tutto questo si porta dietro dei significati culturali molto densi, su cui spesso c’è poca consapevolezza, al punto che Thompson ammette di aver nascosto a lungo la sua passione per il pollo fritto, quasi negandola, perché la società in cui viveva in qualche modo stigmatizzava il consumo di questo alimento. Dicono niente espressioni a cui siamo abituati anche noi come mangiapolenta o mangiabanane, spesso usate con intenti apertamente denigratori, come espressione di stigma sociale? Ecco, non siamo molto distanti. Motivo per cui oggi non è il caso di fare la guerra al pollo fritto (e alla polenta, e alle banane). Ma nutrire la consapevolezza del messaggio razzista che il suo (loro) consumo in certe culture si porta dietro è cosa buona e giusta, per liberarlo da questo giogo e restituirgli la dignità, anche gastronomica, che merita(no).
The New Internet Pantry – Taste, 13 ottobre
Katie Okamoto scrive di come i mesi scorsi abbiano trasformato radicalmente il modo in cui tante persone fanno la spesa e riempiono la propria dispensa. Il suo discorso, inevitabilmente tarato sugli Stati Uniti, presenta molti spunti di riflessioni utili anche per l’Europa e l’Italia. In particolare Okamoto sottolinea come la combinazione lockdown, acquisti online e esplosione delle proteste di Black Lives Matter e di tutte le rivendicazioni razziali e sociali che queste si sono portate dietro ha fatto sì che sempre più persone abbiano guardato alla rete come al luogo in cui sperimentare nuove forme di acquisto dei prodotti alimentari, perlopiù direttamente dal produttore e con implicazioni politico-sociali molto evidenti e sbandierate. Come si legge nell’articolo, «acquistare direttamente dal produttore ci regala un qualche grado di scelta e di controllo – molto di più di quanto potremmo averne al negozio di alimentari – su come vorremmo partecipare al sistema gastronomico, e su quali tipi di comunità culturali vorremmo supportare. Forse ciò per cui i cuochi casalinghi dovrebbero lottare non è il consumo etico, il consumo consapevole o il consumo sostenibile (un ossimoro, specie se consideriamo la mole di spedizioni), ma il consumo critico. Trovare una relazione meno confortevole e più scettica con gli ingredienti di cui ci fidiamo ciecamente è l’unico modo per far progredire veramente la nostra dispensa».
Il tè col latte ora è un simbolo di democrazia – Il Post, 15 ottobre
Rimanendo sul piano (sì, ci piace molto…) del rapporto tra cibo e politica, era inevitabile commentare anche questa notizia: in Thailandia, Hong Kong e Taiwan le proteste popolari contro l’autoritarismo del governo thailandese e di quello cinese si sono riunite sotto il segno del tè col latte. Si tratta di una sorta di alleanza democratica che passa attraverso i social network, con l’hashtag #milkteaalliance, e la contrapposizione delle bevande tradizionali thai, di Hong Kong e Taiwan, in cui si usa il latte, e il tè cinese, che non lo prevede affatto. La dimostrazione, se ce ne fosse il bisogno, che il cibo è un potente strumento identitario, a volte pericolosamente identitario, ma anche un efficace grimaldello delle proteste sociali contemporanee.
Pare (pare) che dietro la cancellazione dei famosissimi (per gli Stati Uniti) James Beard Awards, una specie di Oscar della cucina dal budget milionario, ci sia il fatto che i premi assegnati, decisi con il meccanismo dei voti, erano troppo poco inclusivi. E pare (pare) che l’organizzazione del premio abbia provato a manipolare i risultati senza successo.
C’è chi dice no! L’Europa e il “vino naturale” in etichetta – Vinoestorie, 16 ottobre
Pietro Stara su una notizia recente e un tema annoso nell’essere controverso. Con in mezzo Trockij, Bakunin e un po’ di questioni semantiche spiegate.