L’Italia destina solo il 6% del suo welfare a politiche rivolte alla famiglia e all’infanzia, mentre il tasso di occupazione femminile è fermo al 53,8%, tra i più bassi in Europa. Nel Rapporto globale sul gender gap del World Economic Forum, siamo all’82esimo posto su 144 Paesi rispetto alla parità di genere in ambito lavorativo. E la pandemia – con le scuole e molte attività rimaste chiuse – ha peggiorato una situazione già critica. Così che la condizione di smart worker ha condizionato soprattutto la vita di molte donne, alle prese con una difficile conciliazione tra casa e lavoro.
Come gestire i tempi di vita e di lavoro in un mercato in cui lo smart working sarà sempre più diffuso? Cosa serve alle donne per conciliare al meglio le due sfere della vita sociale? Se ne è parlato nel quarto incontro della serie “Forza Lavoro”, organizzata da Fondazione Feltrinelli, in collaborazione con The Adecco Group. A discutere di un tema così cruciale sono stati Richard Sennett, Senior Fellow al Center on Capitalism and Society della Columbia University, e Chiara Saraceno, sociologa di Alleanza per l’Infanzia, con la partecipazione di Federico Parolotto, esperto di mobilità e trasporti del Mobility in Chain.
«Il lavoro a casa è stata una iattura soprattutto per le donne con i figli a casa», spiega Chiara Saraceno, «però è stato anche un privilegio. Chi non poteva lavorare a distanza invece ha perso lavoro e reddito o è stato costretto a uscire di casa, affrontando non pochi problemi di conciliazione con la famiglia». Insomma, lo smart working è stato «un’opportunità e un privilegio per chi ha potuto farlo, ma con risvolti diversi per uomini e donne».
Perché se è vero che molti padri hanno aumentato durante il lockdown il proprio contributo nella gestione domestica e familiare, è anche vero che «il 49% degli uomini non lo ha fatto per nulla», spiega la professoressa. E questo si è tradotto in un aumento del lavoro per le madri. D’altronde, i dati su chi ha preso il congedo straordinario varato dal governo mostrano che a sceglierlo sono state prevalentemente le donne, con una riduzione del reddito del 50 per cento.
Ma non è solo una questione di genere. Richard Sennett, come già spiegava nel suo libro “L’uomo flessibile”, ricorda che la possibilità di lavorare da casa ha creato grandi disuguaglianze. «La working class che fa lavori manuali non ha potuto lavorare online», dice Sennett. «Questa separazione tra le persone esposte alla malattia e le persone che lavorano da casa è una divisione fondamentale tra classe lavoratrice e classe media, che si è accelerata durante la pandemia. Più povero sei, più vulnerabile diventi rispetto alla pandemia».
Ma ci sono disuguaglianze anche tra gli smart worker. Non solo perché occorre possedere un laptop e una connessione veloce. «Il Covid ha accelerato il processo del fordismo nell’uso della tecnologia», spiega Sennett. «I lavori che è più probabile che vengano svolti per sempre da casa sono quelli più di routine, che richiedono minore interazione sociale». Situazioni che creano quell’isolamento e quell’alienazione che tanto ricordano le linee di assemblaggio ripetitive delle fabbriche, con la possibilità di controllo sul tempo trascorso davanti al pc e sul livello di produttività. Viceversa, «i lavori più creativi non sono soggetti a controllo e regolamentazione continua. Le persone che più hanno bisogno di essere in presenza e incontrarsi sono quelle che prendono decisioni manageriali: il contatto informale e i rapporti sociali sono la chiave per coordinarsi. E questo diventerà sempre più privilegio della classe manageriale».
E in questa distinzione si innestano anche le differenze di genere. Se per le lavoratrici il lavoro da casa è un modo per conciliare la vita familiare e la vita lavorativa, questo vuol dire che «le donne si ritirano sempre più dall’ambiente di lavoro dove vengono prese decisioni manageriali». Riducendo così le opportunità di carriera.
Con il lavoro sempre più meccanizzato e sempre più distante dagli uffici e dalle sfere sociali, «dobbiamo trovare allora un’alternativa al lavoro fisico per non incorrere in problemi di depressione», dice Sennett. «Dobbiamo chiederci come possiamo vivere al di fuori della sfera del lavoro». Oggi, aggiunge Saraceno, «l’esigenza è quella di utilizzare la possibilità di lavorare a distanza non per nuova forma di fordismo, ma per aumentare spazi di libertà per il proprio tempo e per innovare le forme in cui si lavora». Ecco perché serve una regolamentazione dello smart working: perché possa diventare veicolo di una migliore gestione del tempo e non di alienazione e isolamento.
Ma in questo processo conta, e non poco, la qualità della mobilità e degli spazi urbani che viviamo. Parolotto ricorda che ci si sposta di più per andare al lavoro, anziché restare a casa, laddove ci sono facili collegamenti e luoghi piacevoli da vivere con i propri colleghi. «Se si deve prendere un treno e un autobus per arrivare in un ambiente urbano di bassa qualità che tende a respingere la voglia di stare in quel posto, allora si preferisce restare a casa», spiega. Ma anche la modalità degli spostamenti deve essere rivista. «Bisogna ritornare a pensare come consueti anche percorsi di 2 o 3 chilometri a piedi o di 40-50 minuti in bici, come accadeva in passato», spiega Parolotto. «Una nuova agenda, approfittando di budget di tempo maggiori», che farebbe apprezzare la qualità del percorso, con effetti sulla forma fisica dei lavoratori. «È questa la chiave di una possibile transizione delle nostre città». Una nuova cornice urbana per vivere al meglio i nuovi tempi di vita e di lavoro.