Parlami di te, Vecchia SignoraSoffrire ed essere grandi, il destino epico dei tifosi juventini

Pubblichiamo il contributo del direttore de Linkiesta al libro “Juventus Fc 1897 - Le Storie” (Hoepli) di Massimo Bocchiola, Andrea De Benedetti, Corrado Del Bò, Davide Ferrari, in uscita oggi in libreria, con l’introduzione di Sandro Veronesi e molti altri interventi

Photo by JIJI PRESS / AFP

L’ossessione juventina per la Coppa dei Campioni non esiste, è finta, è una costruzione mediatica ordita da tifoserie culturalmente gregarie che sta divorando i più deboli tra noi. Va bene, abbiamo perso sette finali su nove disputate, ma l’enfasi sportiva dovrebbe andare sulle parole «nove finali», di cui sei negli ultimi 25 anni, non sulle sette sconfitte. Arrivare in finale di Champions non è come arrivare secondi in campionato: nel primo caso la squadra finalista sbaraglia gli avversari in un’entusiasmante cavalcata agonistica ad eliminazione diretta durante la quale mostra abilità tecniche, capacità tattiche e spietatezza psicologica che molto spesso la squadra che arriva seconda in un torneo a venti squadre invece dimostra di non avere.

L’amarezza del tifoso bianconero per le sconfitte in Champions League è comprensibile, ma anche un poco insensata. Non c’è dubbio che la Coppa dei campioni sia un trofeo che ci manca da troppi anni, ma perché non ricordare che la Juventus, dopo il Real Madrid, è la squadra che ha disputato più finali, sei, da quando si gioca con la super competitiva e spettacolare formula attuale, più di quante ne abbia giocate il grande Milan, il grande Barcellona, il grande Bayern, il Liverpool e le due squadre di Manchester messe insieme.

Negli anni in cui abbiamo raggiunto tre finali consecutive certamente mi è dispiaciuto perdere contro il Real e contro il Borussia Dortmund, proprio perché eravamo decisamente più forti di loro. Ma il sentimento prevalente era un altro: quella era la nostra competizione, fino alla fine ci arrivava solo la Juventus. Solo noi arrivavamo anno dopo anno in fondo, solo noi insegnavamo calcio in tutti gli stadi europei e solo noi incantavamo il mondo con Del Piero e Zidane, con Peruzzi e Torricelli. Per non parlare dell’incredibile finale di Manchester persa ai rigori contro un Milan che in quel campionato ci era finito dodici punti sotto.

Ma questa è la Champions, sarebbe bello vincerla ancora, ma nello sport l’importante non è partecipare, l’importante è giocarsela sempre e senza recriminare per le decisioni arbitrali contrarie o per il destino cinico e baro.

Sono andato a vedere allo stadio le ultime due finali perse, a Berlino con il Barcellona delle meraviglie e a Cardiff contro il Real di Cristiano. Eravamo più deboli dei due squadroni spagnoli e arrivare in finale in particolare nel primo caso è stato una specie di miracolo sportivo, grazie al genio tattico di Allegri.

La Juventus di Berlino aveva la solita difesa sontuosa e un centrocampo formidabile con Pirlo, Pogba, Marchisio e Vidal. Allegri si è mangiato a colazione il Dortmund di Jurgen Klopp e il Madrid di Cristiano affidandosi alla difesa e al contropiede condotto da Tevez e finalizzato da Morata. La finale di Berlino è cominciata male, poi la squadra è riuscita a pareggiare e a un certo punto ha avuto anche un momento in cui sembrava poter avere il sopravvento. Ci ho creduto anch’io che sono volato a Berlino convinto che non avessimo alcuna speranza, ma è finita con la coppa alzata dai catalani. Certo che ero dispiaciuto, ma anche orgoglioso di aver avuto lopportunità reale di battere Messi, Suarez, Neymar, Iniesta e tutti gli altri, poco dopo il tentativo di cancellarci con un’inchiesta sportiva che ancora grida vendetta, anche se la vendetta ce la siamo goduta sul campo e non abbiamo nessuna intenzione di smettere di godercela.

All’una di notte, alcuni tifosi blaugrana incontrati nelle birrerie di Berlino ci hanno fatto i complimenti e chiesto di scambiarci le sciarpe, perché nessuno li aveva mai messi così in difficoltà. Due anni dopo, agli stessi catalani abbiamo rifilato un bel tre a zero a Torino, senza subire gol nemmeno al ritorno. Alla finale di Cardiff siamo arrivati con maggiore scioltezza e consapevolezza rispetto a Berlino. Quella volta non ero certo della sconfitta.

Non so se la squadra di Higuain e di Dybala fosse più o meno forte di quella di Pogba e Tevez, so che la maggiore convinzione e abitudine a vincere mostrata su tutti i campi della Champions non è stata sufficiente a battere i campioni d’Europa. Anche a Cardiff è cominciata male e poi l’abbiamo ripresa, forse con la più bella azione mai vista in una finale: lancio di Pjanic sulla sinistra, cross di Alex Sandro, stop, pallonetto e passaggio di Higuain e rovesciata di Mandzukic. Tutto al volo. Anche in quell’occasione, dopo il pareggio, è sembrato che l’avessimo raddrizzata, ma nel secondo tempo siamo crollati.

Dopo la partita, nell’area ospitalità del Millennium Stadium ho mangiato otto porzioni di tiramisù e crème caramel per provare ad addolcire il dolore. In treno, verso l’albergo di Bristol, abbiamo cantato felici «ce ne andiamo da Cardiff». È stato quello il momento in cui ho deciso che anche l’anno successivo avrei seguito dal vivo quasi tutte le trasferte di Champions, compresa quella meravigliosa partita al Bernabeu dominata fino al novantesimo con tre gol di scarto a zero.

La vittoria della Champions non si può programmare, al contrario di quella del campionato, e oggi non riesco più a contare i campionati consecutivi vinti né il numero totale di scudetti conquistati sul campo, ma messo tutto insieme, serie A e ruolo da protagonisti in Champions, siamo oltre la leggenda, l’epica, il mito. Lo juventino sta vivendo un’epoca senza eguali nella storia dello sport, pari soltanto all’incubo distopico in cui si trovano quegli amici nerazzurri, rossoneri, giallorossi e biancocelesti che per destarsi prima invocano la tecnologia in campo e poi rinnegano la tecnologia in campo, ma tanto non cambia niente perché in Italia il calcio è un gioco molto semplice che si gioca in undici contro undici e alla fine vince la Juventus.

È legittimo augurarsi che in Europa i bianconeri siano più spavaldi, come hanno dimostrato di saper fare quando, costretti dalle circostanze, hanno dato tre gol cadauno al Real a Madrid e al Barcellona e all’Atletico a Torino. Ma ciò che conta è esserci. Il calcio è bello per questo, perché tutti hanno diritto alla propria opinione e anche ai propri fatti, a patto che poi non ci si affidi agli esperti di Twitter ma a quelli della Continassa, i quali magari scarseggiano in like e retweet ma sanno come conquistare titoli e coppe e battere il Real di Ronaldo e il Barcellona di Messi.

Invece di farsi condizionare dalle invidie altrui, i tifosi della Juventus dovrebbero ricordarsi di questo momento che stanno vivendo, nelle vittorie e nelle sconfitte, e magari ogni giorno abbracciarsi per strada, al lavoro, in famiglia e poi darsi dei pizzichi per rendersi davvero conto di essere svegli e presenti alla creazione della storia. E chi se ne importa se nei bar dello sport e sui social e sui giornali si intensificano il dileggio e il livore degli sconfitti nel grottesco tentativo di riscrivere la cronaca di questi anni. Lasciali divertire, amico juventino: in testa in Italia e in lotta in Europa ci siamo solo noi. «Soffri e sii grande, il tuo destino è questo», dice Anfrido ad Adelchi. Non sono due temibili avversari di Champions, Anfrido e Adelchi. Sono due personaggi di Alessandro Manzoni, letterato civile italiano.

Tratto da “Juventus Fc 1897 – Le Storie”.
Di Massimo Bocchiola, Andrea De Benedetti, Corrado Del Bò, Davide Ferrari con l’introduzione di Sandro Veronesi (Ulrico Hoepli Editore, 408 pagine)

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