Caro sindaco Sala, cara Atm, cari tutti, vi scrivo per sapere quand’è che Milano è diventata Roma.
L’altro giorno volevo prendere un tram. Due cose non ci sono mai in casa mia: contanti, e biglietti dell’Atm. Per la stessa ragione: esistono le carte di credito, e con esse, nella moderna Milano, si può prendere il metrò anche se non si hanno spicci.
(È possibile che ormai persino a Roma si possa accedere al metrò strisciando una carta di credito, ma probabilmente i romani, rassegnati a mezzi che non passano e tecnologie che non funzionano, non se ne sono accorti, e perciò non ne parlano).
Insomma, esco di casa e vado a prelevare al bancomat, per poi andare dal tabaccaio a comprare un biglietto: sul tram non puoi pagare con la carta, e già questa mi sembra un’arretratezza inaccettabile. Ma non è di migliorie fantascientifiche che vi voglio parlare, bensì del tabaccaio vicino casa.
Entro, chiedo se abbia biglietti del tram, e lui mi dice le fatali parole che, solo in quel momento me ne ricordo, mi aveva già detto mesi fa, cioè l’ultima volta che avevo cercato di prendere un tram: i biglietti del tram non li ha più nessuno. Non li ha lui, non li ha l’altro tabaccaio tra lì e la fermata del 9, e non li ha l’edicola giacché l’edicola ha chiuso (come tutte le edicole della zona).
Mi dice che però posso fare il biglietto via sms, e io desolata rispondo che, da quando ho cambiato operatore, il biglietto via sms non funziona. Cioè: io mando l’sms, e non mi arriva mai quello di conferma, quindi non so mai se sto viaggiando a scrocco.
Divagazione. (Ma non si distragga, caro Sala: è nelle divagazioni che c’è la sostanza).
Sono gli anni Settanta. Sono a Bologna, vado alle elementari, la tata mi viene a prendere un pomeriggio, e torniamo a casa in autobus. Mi pare di ricordare che, all’epoca, i biglietti degli autobus bolognesi fossero dei cosetti gialli che emetteva una macchinetta a bordo, ma potrei confondermi. Non è importante. Quel che è importante è che su quell’autobus ci siamo solo noi due e una ragazza.
È più grande di me, e quindi mi sembra grande, ma è piccola, avrà tredici anni o giù di lì. Sale il controllore, le chiede il biglietto, e si capisce subito che lei non l’ha fatto. Tuttavia, finge di cercare in borsa, aggravando il mio imbarazzo. La borsa è minuscola, la me stessa piccola pensa che in quei dieci centimetri quadrati il biglietto l’avrebbe già trovato, se ci fosse.
All’epoca non sono ancora diffusi “vergüenza ajena” o “fremdschämen”, cioè i modi in cui lingue più ricche della nostra indicano l’imbarazzo per conto terzi, ma io, col mio bravo sussidiario nella cartella, già so che tutta la vita mi vergognerò per quella ragazzina.
Tutto questo per dirle, caro Sala, che – sebbene abbia avuto un’adolescenza da teppista borghese, di quelle che rubano i rossetti nei grandi magazzini, e sia stata all’epoca varie volte svergognata – mi è sempre sembrato che la massima umiliazione possibile fosse essere sorpresa senza biglietto in autobus. Tutto questo per tornare al tabaccaio che mi dice: i biglietti non li ha più nessuno, e a me che non prendo in considerazione di salire sul tram senza.
L’ultimo suggerimento che mi dà il tabaccaio è di arrivare fino alla fermata del metrò di piazza della Repubblica, scendere a fare il biglietto al distributore automatico, e poi risalire e prendere il tram.
Solo che il bancomat mi ha dato una banconota da 50 euro. E sappiamo che il distributore automatico non la prenderà. A quel punto il tabaccaio – che nonostante sia vicino casa non mi conosce: non fumo – si offre d’imprestarmi una moneta da due euro. Quello è il primo momento in cui penso a lei, caro Sala: ci vuole una medaglia, un Ambrogino, un qualcosa, per un commerciante così generoso con una che neppure è sua cliente. Se il Comune tenesse a me quanto il tabaccaio, metterebbe in vendita i biglietti da qualche parte.
Saltiamo la parte in cui io e il mio biglietto a scrocco scopriamo che le fermate del 9 sono state sospese, perché in zona ci sono dei lavori in corso: non voglio chiederle conto proprio di tutto. Voglio sorvolare come quelle conduttrici televisive che – quando lei racconta che Giorgio Armani le telefonò a febbraio dicendole «Beppe, ma se domani annullassi la sfilata?», sentendosi rispondere da lei che era un’ottima idea – quelle conduttrici che a quel punto non le chiedono scusi, ma se a fine febbraio annullare la sfilata era un’ottima idea, perché lei giorni dopo fece fare lo spot «Milano non si ferma»?
Veniamo al tram e al metrò che ho preso quel giorno, e a cos’avevano di diverso da quelli presi nei mesi scorsi: erano scomparse le scritte che stavano su metà dei sedili, quelle che per farci stare distanziati ci dicevano di non sederci lì, ci facevano stare con un sedile vuoto tra noi e il prossimo sconosciuto. Scomparse le scritte, la gente si siede vicina vicina, bella stretta, come sotto Natale. Ma non siamo ancora in stato d’emergenza? L’altro giorno a Roma ho preso due taxi, ed entrambi i tassisti erano senza mascherina: abbiamo deciso di copiare da loro l’attenzione alle procedure di sicurezza? Abbiamo deciso che se ci sediamo un posto sì e uno no poi Milano si ferma?
E visto che siamo qui, caro Sala, mi spiega anche chi è il genio che ha messo delle divisioni da file dei concerti dentro alla stazione Centrale, degli ostacoli che non tengono affatto più distanti le persone ma in compenso ti costringono a fare un giro assurdamente lungo, tenendo in circolazione per la stazione per molti più minuti te e le tue eventuali infezioni?
L’altra sera, arrivata a una di queste divisioni che impongono sensi unici a casaccio e non ti fanno capire come diavolo andare a prendere il metrò – quello dove poi starai seduto bello attaccato, perché i separé sono in stazione per la gente che cammina, mica nel vagone per la gente che sta seduta – ho chiesto a un poliziotto a guardia del senso unico pedonale da che parte dovessi andare. Mi ha risposto piuttosto sgarbato, e con mascherina abbassata. L’ho invitato ad alzarsela. Non so quando siamo diventati romani, ma ho capito che eravamo diventati teppisti tredicenni quando il poliziotto a guardia dei separé in centrale mi ha detto, della mascherina, «Io se voglio me la levo pure». Eppure eravamo Milano, una volta.