Sono spagnolo. Non ho mai fatto una lezione d’italiano. E sono da sempre innamorato della parola “pirla”, della parola e del concetto. Non esiste un vocabolo di paragonabile bellezza. So che queste prime righe sono un po’ sconnesse. Anzi, non hanno proprio senso, e probabilmente sarà impossibile farvi capire ciò che provo per questa parola. Ma visto che siete prevenuti non mi peserà sulla coscienza.
Ho due figli. Luna, di 12 anni, parigina. Theo, anni 4, madrileño. Nessuno di loro due parla italiano. E “pirla” è una delle prime parole che hanno balbettato: grazie a Dio non c’era nessun figlio di italiani all’asilo.
Nonostante non parlassimo italiano a casa e non avessero molti contatti con la lingua, non ho fatto fatica a fargli capire cosa significasse, e dopo poco hanno cominciato ad utilizzare “pirla” a ruota libera. Un’abitudine che provocava tanti sguardi confusi da parte degli adulti spagnoli e francesi che ascoltavano, in mezzo ai loro discorsi, quella parola di cinque lettere mai sentita prima.
Una volta mia figlia, che all’epoca avrà avuto tre anni, ha detto a un mio caro amico che suo figlio non capiva un gioco perché era, appunto, un pirla:
«Oui, parce que ton fils est un piiirla» (perché tuo figlio è un pirla).
-Un quoi? (un cosa?)
-Un piiirla. (Mia figlia mi guarda) Mais il est pirla lui aussi, le pére? (Ma anche il padre è un pirla?)
Ho rischiato la morte sociale mentre cercavo di cambiare discorso il prima possibile.
Perché mi piace così tanto la parola pirla? È come una lasagna perfetta della nonna. Combina la quantità esatta di sfottò senza per questo diventare un insulto, ma non è neanche così molle da risultare priva di carisma.
Ha qualcosa di “ancien”, di antico, come un quartiere popolare in bianco e nero, una sigaretta in bilico sulle labbra, un gruppo di vecchi amici che ridono insieme. E, soprattutto, è intraducibile. A me dire “pirla” sa di Milano. Anzi, forse più di Monza. O di una passeggiata col freddo a Porta Ticinese. Di un giro coi giornali vicino al Parco Sempione.
Ci sono dettagli fantastici. Più lunga e sostenuta è la i, meglio suona. Piiiirla (se ci state provando mentalmente e siete arrivati fin qui: ho vinto). È anche discretamente comica quando viene detta con la erre moscia.
Magari esiste un modo più bello di dire pirla in danese. Vai a sapere. Io parlo francese, inglese, spagnolo e farfuglio il tedesco e posso dirvi che non c’è un termine con un carattere simile. Perché in quelle cinque lettere c’è tanto dell’Italia.
È bello che ti diano del pirla? Assolutamente no. È una parola bella per chi la pronuncia, per chi prende l’iniziativa e si piazza in una posizione di assoluta superiorità. Su Wikipedia ho scoperto che una sentenza della Cassazione ha stabilito che dare del pirla è lesivo per l’onore del destinatario. Sappiate allora, cari magistrati, che per me sarebbe un onore essere condannato per tale motivo.
Tanti ex premier (ultimamente, soprattutto gli ex vicepremier) possono rispondere alla descrizione del pirla in chief, ma io immagino quella parola detta da Jean Paul Belmondo, da Steve Mcqueen, da Adriano Celentano (per carità, quello che era Celentano prima di diventare Celentano), da Vittorio Gassman… insomma, credo che mi abbiate capito.
Un modo di essere uomo prima che essere orgogliosi di definirsi “uomo” fosse troppo da uomo per essere veramente da uomo. Se avete dubbi su questo, Guia Soncini sa spiegarvelo meglio di me.
Il tipo che diceva meglio pirla – anzi, incarnava quello spirito – era un mio capo alla cronaca di Milano del Corriere della Sera, Giancarlo Perego. Un giorno mi ha detto, col suo stile affettuoso/militare, «Spagnolo, vieni qui. Non sei venuto al Corriere a fare uno stage per grattarti i coglioni vero? Domani mi proponi un paio di idee da scrivere».
Sono tornato il giorno dopo, un po’ impaurito, a dire la verità, e ho proposto di fare una pagina con delle interviste a degli stranieri che vivessero a Milano. Non ho mai dimenticato la sua risposta: «Spagnolo, non hai capito un cazzo. Guardati intorno. Quanti siamo?». «Più di venti, Giancarlo». «Bene, E tu credi che io lascio te fare un’intervista? Sul Corriere? Di quei venti, tutti bravi, qui le interviste le possono fare solo in tre. Quindi torna domani e cerca di non fare ancora il pirla». E così si è creata la magia. Non avevo mai sentito quella parola ma ne avevo capito benissimo il senso.
E poi alcuni di voi mi diranno che non è così, che “pirla” è una parola come qualsiasi altra. Ma a me non importa, perché la bellezza della distanza è che ci permette di idealizzare le cose. E in ogni caso si tratta di un discorso soggettivo; che ne so, magari a voi piace “paella”, una parola di sonorità assurda. È una vostra scelta, prevedibile, ma dopotutto sono affari vostri. A me piace dire pirla e mi sembrava bello, in mezzo a questo mondo annegato di news noiose, fare un omaggio così sentito e inaspettato a una parola che vi passa davanti senza che vi rendiate conto della sua magia.
Il problema di fondo, secondo me, è proprio quello: voi italiani valutate troppo poco la vostra lingua.
Per esempio, ci sono quelli che adorano il francese. Diciamoci la verità: non capiscono niente. Al contrario che quel saggio messicano ubriacone che incontrai una volta al Tribal Café, nella bellissima Rue des Petites Écuries. Mi aveva detto, birra in mano, con tono tragico e quasi una lacrima agli occhi: «Non imparerò mai il francese. Ma».
-Ma perché, scusa. Non è tanto difficile.
-Quando non capisci il francese, e senti una donna che parla, cosa pensi che lei stia dicendo – disse, con un lampo di lucidità alcoolica.
-Mah…
-Ti amo. Je t’aime. Voglio passare la vita con te.
-Ah, e quello sarebbe un problema.
-No. Per niente. Sono messicano. Il problema viene adesso. Quando senti un uomo francese parlare, cosa credi che dica? Proprio lo stesso. E io così non ci riesco. Ti ho detto che sono messicano.
Non potevo dargli torto. Se io fossi un editorialista del New York Times e provassi a raccontare questa storiella magari mi caccerebbero. Meno male che scrivo per un giornale liberal come Linkiesta. Alla fine, il mio caro Pancho Villa del linguaggio voleva dire che il francese è stucchevole. E aveva ragione.
Invece l’italiano no. È teatrale, certo. Per quello è perfetto per la vita. Pronunciare pirla definisce quasi più chi parla che chi riceve l’epiteto. La vostra lingua è una messa in scena. È per questo che è meravigliosa. Non c’è bisogno di andare al Papeete per definire sé stessi. Insomma, rimane sempre una possibilità ma scegliete voi. Io, qui a Madrid, continuerò a dire pirla.