Colpevole a prescindereIl processo a Vitaly Markiv è l’esempio di tutti i difetti del giustizialismo italiano

Il soldato italo-ucraino è stato condannato in primo grado a Pavia per l’omicidio del fotoreporter Andrea Rocchelli. L’intero processo però considera la prova della colpevolezza del soldato la sua stessa persona: perché, in quanto militare ucraino, sarebbe fascista per definizione

È in corso a Milano il processo di appello contro Vitaly Markiv, il cittadino italo-ucraino e soldato della Guardia Nazionale, condannato in primo grado a Pavia per l’omicidio di Andrea Rocchelli, fotoreporter italiano, morto insieme ad Andrej Mironov, dissidente russo e attivista per i diritti umani, e per il ferimento del fotografo francese William Roguelon, avvenuti il 24 maggio 2014 in una zona dell’Ucraina allora occupata da separatisti filorussi.

È accusato di avere concorso in modo determinante a un attacco organizzato contro giornalisti «ficcanaso». Avrebbe dalla sua postazione su una collina, posta a circa 1800 metri dal bersaglio, riconosciuto i giornalisti e orchestrato il fuoco per ucciderli, mentre erano nei pressi di una fabbrica divenuta base dei separatisti filo-russi per scattare foto.

La base dell’accusa sarebbe una confessione stragiudiziale resa dopo l’accaduto da Markiv a un giornalista italiano, Marcello Fauci, e divenuta, in forma di intervista, un articolo del sito del Corriere della Sera a firma di Alessia Morani, da cui gli accusatori desumono la responsabilità di Markiv. Responsabilità che i giornalisti non devono avere dedotto, se Fauci ha continuato successivamente a frequentare Markiv, a visitarlo in ospedale e a chiedergli aiuto per trovare un giubbotto antiproiettile, che il soldato ucraino gli ha successivamente fornito.

Dall’intervista si capisce che Markiv invita gli interlocutori a non avvicinarsi alla linea degli scontri e fa riferimento alla morte di Rocchelli e Mironov come esempio della pericolosità di una situazione dove si usa l’artiglieria pesante, non c’è un fronte preciso e vi sono azioni militari sparse, in attesa dell’attacco alla città di Sloviansk, allora occupata dai separatisti.

Interrogato durante il processo di primo grado a proposito dell’intervista – in cui peraltro era stato impropriamente qualificato come capitano – Markiv ammette di avere parlato con Fauci, ma che è stato quest’ultimo a dargli la notizia della morte dei giornalisti, di cui lui non era al corrente. In ogni caso da quella intervista nessuno per anni capisce nulla di diverso da quello che c’è scritto, fino a che la Procura di Pavia non decide di leggervi in filigrana la confessione di un delitto. Markiv viene arrestato il 30 giugno 2017, quando arriva in Italia per fare visita alla madre che vive nelle Marche, dove ha vissuto anche lui per anni.

In questo secondo processo, come nel precedente emerge con chiarezza che agli accusatori, agli avvocati di parte civile, alla Federazione Nazionale della Stampa Italiana e ai prestigiosi giornalisti che hanno sposato la tesi dell’accusa non importa nulla che Markiv sia colpevole o meno di quel delitto; importa solo che sia dichiarato colpevole, per vendicare la morte di Andrea Rocchelli.

Invece l’associazione russa Memorial, di cui faceva parte Mironov, ha costituito un gruppo di lavoro internazionale e indipendente che ha studiato gli atti del processo di primo grado ed è giunto a conclusioni molto critiche sulla superficialità dell’analisi del contesto di guerra in cui Rocchelli e Mironov sono morti (lungo quella che era a tutti gli effetti a quell’epoca la linea del fronte), sull’inconsistenza di alcune prove e sulla sottovalutazione di altre (come l’audio in cui lo stesso Mironov poco prima di morire dice che si trovano in mezzo al fuoco incrociato) e sull’esclusione di qualunque indagine nel campo separatista. Evidentemente, agli amici di Mironov non basta un colpevole purchessia.

La “logica” che ha portato alla prima condanna e che, temiamo, potrebbe portare alla seconda è quella comune a tante altre pagine di emergenzialismo giudiziario, in cui ai processi e alle sentenze è imposto non di essere giuste, ma “esemplari”, al costo, ritenuto irrilevante, della violazione del principio della presunzione dell’innocenza e dell’inversione dell’onere della prova.

È esattamente quel che è avvenuto nell’affaire Markiv, come si può desumere dalla lettura di due precise disamine della vicenda processuale fatte dal sostituto procuratore generale di Genova Enrico Zucca e dall’avvocato inglese Wayne Jordash.

E spiace e stupisce sinceramente vedere ambienti politici e intellettuali legati alla sinistra più garantista, accettare in questo caso una condanna e prima ancora un’accusa fondata sulla mostrificazione dell’accusato, piuttosto che sulle prove (del resto inesistenti) che dovrebbero dimostrarne la responsabilità.

Markiv è colpevole perché è un fascista, ed è fascista perché è un militare ucraino e tutti i militari della Guardia Nazionale ucraina sono per definizione fascisti. È la logica del diritto penale cosiddetto “d’autore”, in cui la prova del delitto si ritiene fornita dalla personalità di chi è accusato di averlo compiuto. Markiv è colpevole perché è quello che è – un fascista ucraino, appunto – non perché ci siano prove che abbia fatto quello che si ritiene che abbia fatto.

Inoltre, se tutti i militari ucraini sono fascisti, allora i cattivi sono loro, mentre i buoni sono i separatisti filo-russi agli ordini del campione dell’antifascismo antiucraino, Vladimir Putin. Il fuoco che ha ucciso Rocchelli e Mironov doveva per forza arrivare da parte ucraina, non da parte separatista e filorussa, perché i cattivi sono gli ucraini. Inoltre, il fuoco che ha ucciso le due vittime deve essere parte di un progetto preordinato, e l’episodio non può essere stata una fatalità, purtroppo non così infrequente per giornalisti che si trovano in uno scenario di guerra e incrociano gli scontri dei gruppi combattenti.

Di conseguenza l’esigenza di un sopralluogo sul luogo dei fatti (nel frattempo pacificato e quindi privo di rischi) o di prove tecniche in grado di dimostrare la fondatezza dell’accusa non sono necessarie e quelle che invece danno ragione alla difesa di Markiv (ad esempio sulla traiettoria dei proiettili desunta dalle foto dell’auto che li trasportava e che è stata bersagliata di colpi) non sono sufficienti.

Non importa provare che Markiv si trovasse dove l’accusa lo mette, che da quel luogo avesse una visuale e una strumentazione ottica sufficiente per riconoscere il bersaglio e distinguere giornalisti da non giornalisti e che avesse un ruolo di responsabilità sufficiente per coordinare l’attacco.

È tutto irrilevante, perché la prova della colpevolezza di Markiv è Markiv stesso, esattamente come nel processo Sofri la responsabilità dell’accusato era provata dalla sua stessa persona, personalità e ideologia politica. Quella vera e ancora di più quella verosimile e comoda per gli accusatori. Sappiamo che il parallelo non piacerà a molti dei sostenitori della colpevolezza di Markiv, ma, a parti ideologicamente rovesciate, questo è davvero l’esempio più pertinente.

Nella motivazione della sentenza il capovolgimento psicologico della dinamica bellica è a tal punto scoperto che, in due lapsus rivelatori, si parla di «insorti ucraini» non con riferimento ai separatisti e alle forze russe camuffate, ma all’esercito regolare ucraino, e la responsabilità del conflitto non viene addebitata alla volontà di secessione territoriale della fazione filorussa e alle mire di destabilizzazione dell’Ucraina europeista da parte di Mosca, ma alla «dichiarazione di indipendenza dell’Ucraina», che invece è del 1991, molto prima quindi degli eventi del Maidan del 2014.

Che la colpevolezza di Vitaly Markiv sia presupposta al processo si capisce perfino dagli infortuni della pubblica accusa, che ha chiesto di acquisire una intercettazione ambientale in carcere successiva all’arresto in cui l’imputato avrebbe detto: «abbiamo fottuto un reporter».

Invece anche l’intercettazione, una volta tradotta alla presenza della difesa dell’imputato, prova che Markiv – non nel processo, ma intercettato in carcere – ha detto una cosa del tutto diversa da quella che gli era stata contestata nel primo grado di giudizio, cioè che «nel 2014 è stato fottuto un reporter, ma ora vogliono cucirmi addosso tutto». Ma visto che l’accusato aveva “confessato” l’omicidio ai giornalisti (che non se n’erano accorti) nell’imminenza del fatto, era ovvio che l’avesse confessato anche in carcere per vantarsene, no?

L’intera vicenda processuale è disseminata di queste trappole ideologiche: perfino dall’ammissione come prova, per escludere i testimoni della difesa, di un documento falso diffuso da un sito di propaganda russa, in cui si dà conto di un disegno organizzato per scagionare Markiv e ingannare i giudici italiani. Per non parlare di un rapporto Ocse, presentato come prova delle violenze compiute da parte ucraina sui giornalisti, che invece le addebita alla parte filo-russa.

Se, come temiamo, sarà confermata dalla Corte d’appello di Milano la condanna, seppur in modo un po’ addolcito, per un crimine che non ha potuto e voluto compiere, Markiv non sarà la sola vittima di una giustizia ingiusta e non saranno i giudici e gli accusatori i soli responsabili di questa tragedia, che non riparerebbe in ogni caso quella accaduta il 24 maggio del 2014 a Sloviansk, ma si aggiungerebbe a essa.

Il difensore di Markiv, Raffaele Della Valle, uno degli storici difensori di Enzo Tortora e figura tra le più autorevoli dell’avvocatura italiana, ha dichiarato di avere visto nel processo di primo grado cose che non gli era mai capitato di vedere in cinquantadue anni di professione. A lui e alla sua tenacia si deve se qualche squarcio di luce e di informazione, purtroppo insufficiente, è stato fatto su di un caso giudiziario letteralmente pazzesco sia nelle premesse che nello svolgimento.

In primo grado Markiv è stato condannato in un modo in cui, in uno Stato di diritto, nessuno dovrebbe mai essere condannato. A rendere quella sentenza obbligata sono in primo luogo quanti si sono schierati contro Markiv ritenendo che questo fosse il solo modo di onorare la memoria del proprio familiare, amico e collega Rocchelli.

Noi che abbiamo conosciuto Andrej Mironov come militante democratico russo, che ha sostenuto tante battaglie del Partito Radicale, pensiamo, come i suoi compagni di Memorial, che a onorare la sua figura non serva la galera di un colpevole designato e che al contrario i tre anni di carcere già scontati da Markiv e la condanna di un innocente sarebbero un osceno tributo alla memoria delle due vittime, oltre che un oltraggio alla giustizia.

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