È molto stretta la strada che deve affrontare la nuova amministrazione di Joe Biden in Medio Oriente. Beninteso, non sarà certo questa la priorità di politica estera del nuovo presidente, che più volte ha affermato in campagna elettorale che questa sarà solo la sua quarta priorità. Innanzitutto per il presidente democratico vanno definite le strategie con la Cina, quelle con la Russia e il difficile dossier nord coreano. Ma Biden, che ha una lunghissima esperienza in politica estera – prima di essere stato vicepresidente con Obama è stato a lungo presidente della commissione Esteri del Senato – dovrà presto definire una sua politica mediorientale e mediterranea, che però si differenzierà – e non è detto – da quella di Trump in maniera sensibile prevedibilmente solo nei confronti di Teheran.
Gli sarà infatti difficile ribaltare in tempi rapidi la rotta di collisione imposta da Trump con la denuncia nel 2018 dell’accordo sul nucleare fortemente voluto da Barack Obama. La tradizionale posizione dei democratici a favore di un Deal con gli ayatollah si scontrerà infatti con tre difficoltà,
Innanzitutto, nel maggio del 2021 molti elementi indicano che le elezioni presidenziali che si terranno in Iran segneranno la fine della fase “riformista” che ha segnato la presidenza Rohani, convinto assertore con il suo ministro degli esteri Javad Zarif della necessità di un accordo con gli Stati Uniti. L’ala “rivoluzionaria” dei potenti Pasdaran è in questi mesi riuscita a portare sulle sue posizioni la Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei che ha commentato in modo tutt’altro che amichevole la vittoria di Biden: «Dobbiamo diventare più forti di fronte all’inimicizia degli Stati Uniti e rafforzare gli strumenti del nostro potere reale; l’inimicizia dell’America nei confronti dell’Iran deriva dal fatto che non abbiamo accettato la loro politica tirannica. L’unico modo per terminare le ostilità è impedire loro di colpirci ancora».
Un chiaro ed esplicito riferimento alla volontà di proseguire nello sviluppo dei missili iraniani intercontinentali e alla volontà di rafforzare l’egemonia iraniana verso il Mediterraneo acquisita, tramite i Pasdaran diretti da Qassem Suleimaini (fatto uccidere da Trump), in Iraq, Siria, Libano, Yemen e anche a Gaza. Quindi molti elementi indicano che il vertice iraniano sceglierà in elezioni, tutt’altro che democratiche quali sono quelle iraniane, un nuovo presidente oltranzista, avverso a un nuovo Deal. E qui si evidenzia la seconda e più importante ragione che renderà difficile se non impossibile un nuovo appeasement tra Stati Uniti e Iran.
Biden dovrà infatti prendere atto dell’enorme errore compiuto da Barack Obama (e da lui pienamente condiviso) quando decise nel 2015 di escludere dalla trattativa con gli ayatollah sia lo sviluppo dei missili intercontinentali, che la possente attività militare dei Pasdaran in Siria (che ha salvato letteralmente il regime di Bashar al Assad), in Iraq, nello Yemen e in Libano. Errore che ha permesso all’Iran di diventare, utilizzando direttamente i Pasdaran, una potenza militare e politica a livello regionale che minaccia direttamente, letteralmente alle loro frontiere, gli alleati storici dell’America: Israele, Arabia Saudita e le monarchie del Golfo.
Biden in campagna elettorale ha dato prova di aver preso atto di questo grave effetto distorto della strategia di appeasement di Obama e ha assicurato che affronterà «con decisione le questioni di cittadini americani imprigionati in Iran, del rispetto dei diritti umani in Iran e delle politiche destabilizzanti di Teheran in Medio Oriente. Continueremo a usare sanzioni mirate contro gli abusi dell’Iran nel campo dei diritti umani, il suo supporto al terrorismo e il suo programma di missili intercontinentali». Dunque, la decisione di un tavolo di trattativa, se mai ci sarà, non più limitato al solo nucleare (come volle, sbagliando, Obama) ma su terreni che gli ayatollah considerano “non negoziabili”.
Soprattutto, Biden si dovrà muovere a partire dall’indubbio, grande, successo strategico perseguito da Trump in Medio Oriente, quell’Accordo di Abramo che va ben al di là della enorme novità del riconoscimento statuale di Israele ad opera del Sudan, del Bahrein e degli Emirati Arabi Uniti. Dietro questi passi si è concretizzato un asse strategico, proprio ed essenzialmente in funzione anti-iraniana, tra l’Arabia Saudita e Israele. Novità epocale, che coinvolgerà quasi tutte le monarchie del Golfo a costituire, con perno a Gerusalemme e Ryad, quella “trincea sunnita” teorizzata a praticata da Condoleezza Rice e George W. Bush.
Biden non potrà che adeguarsi a questa nuova, per certi versi clamorosa, dinamica in atto in Medio Oriente che condizionerà non solo i suoi rapporti con l’Iran, ma anche la crisi Israelo-palestinese. L’Accordo di Abramo ha infatti fatto saltare il presupposto cardine di tutta la politica araba e palestinese definita sin dal 1982 dal “piano Fahad” (allora reggente e poi re dell’Arabia Saudita). Quella strategia ha subordinato per 38 anni il riconoscimento degli Stati arabi di Israele alla sua adesione alla nascita di uno Stato palestinese.
Strategico punto di forza – che però non ha mai avuto successo – ora vanificato dall’Accordo di Abramo. Biden, dunque, riprenderà i rapporti con Abu Mazen e la Anp, interrotti da Trump, con l’apertura di un consolato americano a Gerusalemme Est, riprenderà a finanziare i profughi palestinesi dell’Unrwa, ma dovrà fare i conti con una dirigenza palestinese che semplicemente è priva di strategia e non ha nulla da offrire a Israele per ottenere ragione. E che per di più vede il vecchio Abu Mazen impossibilitato a fare un accordo con Hamas.
Non solo, Biden dovrà mantenere lo spostamento, provocatorio per i palestinesi, dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme – Trump ha infatti concretizzato una risoluzione del Congresso del lontano 1993 votata anche dai Democratici -, probabilmente accetterà anche la proclamazione della sovranità israeliana sulle alture del Golan, indispensabile alla sicurezza di Israele, e si differenzierà da Trump solo sul tema della accettazione di nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania, unico punto di attrito della sua amministrazione col governo Netanyhau.
Infine, saranno non pochi i punti dolenti della politica estera della nuova amministrazione nel Mediterraneo e di difficile soluzione. Biden dovrà prendere atto delle conseguenze del disimpegno americano in Libia, Egitto e Siria deciso improvvidamente da Barack Obama (e da lui condiviso) poi proseguito da Trump, che ha permesso a Russia e Turchia di diventare potenze determinanti nella regione. Il recente accordo di cessate il fuoco nel Nagorno Karabakh evidenzia e consolida un asse tra Mosca e Ankara che non è affatto una alleanza, ma che permette a Vladimir Putin e a Tayyp Erdogan, pur schierati su fronti opposti, di determinare, di volta in volta, attraverso mediazioni tra di loro, nuovi assetti, peraltro favorevoli alla neo ottomana Turchia. In Siria, in Libia e ora in Nagorno Karabakh la Russia ha consolidato un suo ruolo diretto di grande potenza anche sulla scala regionale, nell’assenza totale degli Stati Uniti, mentre la Turchia è riuscita attraverso suoi potenti interventi militari diretti a diventare una potenza determinante nel Mediterraneo.
Una novità enorme che l’Europa subisce, contrastandola con la Francia solo sul terreno del controllo futuro degli enormi giacimenti metaniferi, e che vede gli Stati Uniti non solo assolutamente assenti, ma privi anche di leve per un intervento futuro della nuova amministrazione.
In estrema sintesi, Biden in Medio Oriente e nel Mediterraneo dovrà prendere atto delle conseguenze degli errori (e dei fallimenti, vedi il piano di pace tra Israele e Palestina) compiuti da Barack Obama in Iran, Siria e Libia (da lui peraltro pienamente condivisi) e del successo strategico ottenuto da Donald Trump con l’Accordo di Abramo. Nei fatti, dovrà elaborare una strategia totalmente innovativa. Oppure continuare negli errori di Obama.