Il mondo si divide in chi, per spiegare perché le piaccia Marlon Brando, sceglierebbe un fotogramma di Fronte del porto, e in chi uno di Ultimo tango a Parigi.
Il disfacimento non è un gusto acquisito: o ti piace da sempre o non ti piacerà mai.
È, però, un lusso femminile – almeno in un’ottica retrograda e novecentesca in cui, quando si parla di estetica maschile, si pensi a qualcosa che piaccia alle donne, e viceversa. I giovani d’oggi direbbero “eteronormativa”.
Solo i maschi possono sfasciarsi, solo le femmine possono concedersi il privilegio di reputarli sex symbol da sfasciati. Jack Nicholson con la pancia sborsata dai pantaloni e i calzini corti è uno per il quale non conosco nessuna che non si strapperebbe le mutande (a parte certe infelici che preferiscono il Brando trentenne con addominale tonico, appunto); Brigitte Bardot conciata da gattara e libera di fottersene è «poverina, che peccato essersi ridotta così».
Anche qui: le giovani, povere ingenue, direbbero “patriarcato”, ma non è mica un condizionamento culturale (sì, lo so che l’estetica è solo e sempre condizionamento culturale, grazie, siete carine a spiegarmelo), è proprio che non siamo uguali: se ti sfasci e sei maschio, sei Depardieu; se ti sfasci e sei femmina, sei la Merini (oltretutto senza averne il talento, lo so perché io sono tutta sfascio e niente genio, tuttavia gli amici mi chiamano generosamente “Alda” evitando di concentrarsi sulla seconda metà della formula).
Persino nei rari casi in cui lo sfascio non rende i maschi più attraenti, persino in quelle rare evenienze in cui il soggetto maschile sta meglio da giovane efebico che da matura vescica di lardo (Elvis Presley, Jim Morrison), comunque quello sfascio lì ha una sfumatura leggendaria. Vuol dire che hanno vissuto, che non si sono negati niente, che si sono sprecati. Non ho niente contro chi detesta la dissoluzione, ma mi sembra più adatto a tenere i conti nell’ufficio commerciale d’una fabbrica di plastica che a scrivere delle vite pubbliche e dei pubblici vizi dei poster che avevamo in cameretta.
L’unico modo per continuare a somigliare al tuo poster e non farmi pensare che non ti sei goduto niente, che hai preferito fare le tue brave flessioni tutte le mattine invece che vivere una vita degna d’essere raccontata, l’unico modo è morire orrendamente giovane. Se non sei disposto a essere James Dean, allora smettila subito con quel tapis roulant e metti su uno spaghetto di mezzanotte.
Adesso, poi, che la gioventù cancellettista impone l’inclusività, che nessuno sa bene cosa sia ma si sa che ti risparmia un sacco di ore di studio dei trattati di estetica, giacché in modalità inclusiva ognuno è bello a modo suo e insomma vale tutto, adesso lo sfasciato (ma persino la sfasciata) trova anche il suo bravo posticino alle sfilate e nelle pubblicità degli stilisti. I quali continuano a non fare taglie per sfasciate (no, non è patriarcato taglia40normativo: è che tutta quella stoffa in più è un costo), ma sono ben lieti di fotografare Lizzo con un loro capo. Tanto, se è impossibile tirar su la chiusura lampo sulla schiena, nella foto di copertina mica si vede.
Una volta, quando eravamo normativi, per la moda ci voleva il Brando trentenne o la Bardot ventenne. Ci volevano le modelle fatte per l’uso per il quale è nato il mestiere: perché i vestiti cascassero addosso a loro come sarebbero cascati sulle stampelle.
Adesso, nell’epoca del “vale tutto”, avrai molte più righe sui giornali se fai sfilare un’obesa che se scegli una disciplinata rosicchiatrice di lattuga scondita.
«Oggigiorno, è della grassezza che diffidiamo, ma quest’inversione può non essere affatto quel che sembra: a essere cambiati non sono i nostri sentimenti più profondi, bensì la cultura in cui viviamo, ch’è diventata una cultura della diffidenza, e – forse non senza ragione – riteniamo più capaci di farvi fronte le persone magre rispetto a quelle grasse». Quando René Girard scriveva di anoressia e mimesi e ossessione per il corpo e magrezza competitiva era il 1996, Diego Armando Maradona era tornato in Argentina ed era già considerato una vittima della propria sregolatezza. Però era ancora magro.
Ieri, mentre i social si riempivano di moralizzatori cui urgeva andare a commentare sotto ogni rigo d’amore e lutto per Maradona che sì, però non era un buon esempio per i giovani, sì, però ha sprecato il suo talento, sì, però muore tanta gente perbene che nessuno piange in pubblico, ieri sono andata a cercarmi Girard perché una cosa mi era chiara: che, se domani muore Keith Richards e qualcuno loda il riff di Satisfaction, nessuno si mette a fare lì sotto lo sfoggio di avversative che c’era sotto alle rievocazioni dei goal di Maradona. Perché Keith Richards non ha mai avuto la malacreanza d’ingrassare.
E, siccome ho visto due partite di calcio in tutta la mia vita, e in nessuna delle due c’era Maradona, e al ricordo di entrambe mi sento svenire dalla noia, non sono in grado di parlarvi del genio che mi pare tutti siano d’accordo nel riconoscergli in campo.
Però riconosco il genio di vedere il nostro tempo e la nostra ossessione per il dovere della magrezza quindici anni prima che il meccanismo lo vedessimo tutti; quindici anni prima che nascesse Instagram, e con essa una corrispondenza esatta tra l’instagrammare cose ingrassantissime e il nutrirsi di bacche per il terrore di, santiddio, non sembrare più il poster di sé stesse: «I nostri innumerevoli libri di ricette e le riviste di gastronomia, la nostra gaiezza fasulla in materia alimentare, i nostri interminabili show di cucina e la nostra perenne celebrazione del mangiar bene dimostrano che la cultura più ossessionata dal cibo nella storia occidentale è proprio la nostra. E quest’ossessione è un ben noto sintomo di anoressia».
Chissà cosa scriverebbe, Girard, dell’urgenza di correre a far la morale ai cadaveri ancora caldi. Chissà di cos’è sintomo.