Era destinoTotti, Ferragni, Lady D e il trucco elitario delle infanzie filmate

I documentari sul calciatore, sulla influencer e sulla principessa dimostrano che non esistono più le classi sociali, perché siamo nel tempo in cui i prodotti che funzionano sono quelli i cui protagonisti mentono, dicendo allo spettatore: sono proprio come te

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Non è un tempo per classi sociali. È un tempo in cui i prodotti che funzionano sono quelli i cui protagonisti mentono, dicendo allo spettatore: sono proprio come te.

Il documentario su Totti è pieno di «era destino»: suoi rispetto a Ilary Blasi, la donna che ha sposato; dei telecronisti rispetto a non so quale gol. Era destino: c’è una frase più da pubblico medio inattrezzato?

«Era destino» potrebbe dirlo Chiara Ferragni, reginetta del «sono una di voi», con un armadio delle borse il cui contenuto vale come un appartamento e tuttavia mangiatrice di sushi direttamente dalla confezione da asporto, in tavolate la cui mise en place è fatta di bottiglie di plastica d’acqua minerale dall’aspetto così poco appetitoso che non mi meraviglierei se fossero pure sgassate.

«Era destino» è stretta parente di «Me lo sentivo», che è quel che diceva Diana Spencer – madre di tutte le immedesimabili in vita, morte, e mediocrità – nel documentario che Channel 4 fece coi nastri delle sue interviste segrete, quelle in cui sputtanava la famiglia reale della quale al tempo faceva ancora parte (come farebbe qualunque utente media: solo che l’utente sconosciuta per farlo s’iscrive ad appositi gruppi Facebook in cui lagnarsi dei congiunti, Diana ne ricavò un bestseller).

Se lo sentiva che non sarebbe mai stata regina, se lo sentiva che non sarebbe durata più di quindici anni nella famiglia reale, se lo sentiva che ci voleva carattere e disciplina e lei aveva solo capricci e malmostosità.

(Il documentario su Diana sta su Netflix; quello sulla Ferragni su Prime; quello su Totti, uscito a sale cinematografiche chiuse, ha la comodità d’essere ovunque, da Now a Prime a Sky).

Non è un tempo per classi sociali, i divari tra le quali sono evidentissimi e dissimulati. Se abbiamo tutti lo stesso smartphone da tot centinaia di euro non possiamo essere così diversi, no? Se la Ferragni promuove gli stessi ravioli da supermercato che mangio io vuol dire che anche lei cena con tre euro, no?

Una cosa che non sapevo e ho scoperto guardando il documentario su Totti è che lui e la Ferragni hanno in comune il tratto di formazione più importante: tonnellate di filmini d’infanzia. Genitori che li riprendevano sempre, al mare, fuori da scuola, alla partitella.

A diciassette anni mi tagliai i capelli quasi a zero. Quello che mi piaceva aveva una passione per il videoclip in cui Sinéad O’Connor cantava Nothin’ compares 2U piangendo, e io decisi di somigliarle. Quello che mi piaceva si mise con una con dei capelli biondi lunghi fino al culo, ma non è di questo che voglio parlare. Lo psicanalista da cui andavo mi disse «Ah, quindi lei vuole tornare nell’utero, per quello si è rasata come i neonati», ma neanche di questo voglio parlare.

Bensì del fatto che l’altro giorno un’amica m’ha chiesto le foto di me rasata, e io non ne ho neanche una. Mica si facevano foto a tutto, all’epoca. I rullini erano per le occasioni speciali. Mica eravamo questa generazione di ragazzini ripresi da tutti i telefoni e instagrammati da tutti i parenti.

Totti però sì. La Ferragni però sì. Forse è così che si creano le vite di successo: mettendo i bambini su un palcoscenico appena nati e non facendoli scendere più. (Poi certo, questo può portare a carriere molto diverse: la Ferragni lavora in tutto il mondo, Totti non è mai uscito dal Grande Raccordo Anulare).

Ma, se il trucco è l’esposizione, tra vent’anni avremo solo gente famosa, ex bambini che hanno vissuto su palcoscenici immaginari creati da telefoni con obiettivo fotografico incorporato? Esisterà, tra vent’anni, un’adulta che potrà dire «di quella tal fase della mia adolescenza non esistono foto»?

Il documentario su Totti è più bello di quello sulla Ferragni, ma mica perché il calcio è grande romanzo popolare e la moda una sciocchezza da femminucce; è più bello perché Infascelli ha fatto quel che la Amoruso non ha saputo o potuto fare: raccontare una storia. (Tra centodue anni avremo cronache postume sulla Ferragni come ne abbiamo su Diana, e allora i nostri nipoti sapranno se e quanto, ad annacquare quel film, fosse stata lei. Spero che la Amoruso abbia registrato interviste segrete che tra decenni si potranno sentire).

Ma ovviamente non è importante quale prodotto sia più bello. Un po’ perché sono prodotti per fan, e “fan” è l’abbreviazione di “fanatico”: non certo una categoria che faccia distinzioni qualitative. Poi perché, appunto: non esistono le classi sociali, non esistono le differenze, non esiste più niente, consumiamo per inerzia tutto con la passività con cui lasciamo che Netflix passi alla puntata successiva perché ci fa fatica opporci fermando la riproduzione dei filmati con un dito.

Se non esistono le classi sociali, se non esistono le gerarchie qualitative, se tutto è uguale a tutto, il ristorante stellato al raviolo da supermercato, il filmino da Paperissima a quello d’un erede al trono, il tatuaggio dello spacciatore a quello del giudice di Cassazione, lo streaming di Scorsese a quello di Emily in Paris, la scarpa Lidl arraffata dal proletariato che spera di rivenderle col ricarico a quelle comprate con qualunque ricarico dal plutocrate senza gusto che semplicemente vuole il feticcio scemo del momento; se tutto è uguale a tutto, non sarà il caso di preoccuparsi meno della didattica a distanza e più di mettere delle lezioni di estetica nei programmi della scuola dell’obbligo?

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