Ritorno al 2000Se il conteggio dei voti in America vi sembra complesso, aspettate di vedere il riconteggio

Vent’anni fa, quando la sfida era tra George W. Bush, governatore del Texas, e Al Gore, vicepresidente in carica, passò oltre un mese tra l’Election Night del 7 novembre e una storica sentenza della Corte Suprema che il 12 dicembre mise fine alla disputa. Il sistema elettorale andò in tilt e potrebbe succedere anche oggi

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Se il conteggio dei voti in America vi sembra complesso, aspettate di vedere il riconteggio. Viste le minacce che Donald Trump lancia dalla Casa Bianca, non è certo un’ipotesi remota quella che si debbano riesaminare tutte le schede di alcuni stati-chiave, in presenza degli avvocati dei candidati. Difficile che dopo la proclamazione del vincitore, Trump improvvisamente cambi atteggiamento, ammetta la sconfitta e renda omaggio al presidente-eletto, come succede quasi sempre.

In quel caso, benvenuti alla versione 2.0 di “Florida 2000”, quando il sistema elettorale vecchio di due secoli con cui si sceglie l’inquilino della Casa Bianca andò in tilt nel modo più impensabile. Mettetevi comodi, perché ricontare le schede e poi chiudere tutte le dispute legali collegate non è una cosa rapida. Nel 2000, quando la sfida era tra George W. Bush, governatore del Texas, e Al Gore, vicepresidente in carica, passò oltre un mese tra l’Election Night del 7 novembre e una storica sentenza della Corte Suprema che il 12 dicembre mise fine alla disputa. Bush entrò alla Casa Bianca con una tiratissima vittoria di 271 voti elettorali contro i 267 dell’avversario, vincendo la decisiva Florida con un vantaggio di 537 voti su sei milioni di votanti.

Quei 537 voti erano di elettori della contea di Palm Beach e decisero le sorti del Paese dopo che oltre 100 milioni di voti nel resto degli Stati Uniti erano risultati in un sostanziale pareggio. Ma decidere per chi avessero votato i pensionati della Florida fu un’impresa titanica. Per settimane tutto il circo dei media (incluso chi scrive) trascorse le giornate accampato a West Palm Beach, dove si contavano e si ricontavano le schede. Era successo che una sfortunata signora italoamericana, Theresa LePore, responsabile del sistema elettorale della contea, quell’anno aveva avuto la sciagurata idea di far votare mezzo milione di persone usando una cosiddetta butterfly ballot, un portascheda a farfalla. In pratica, si trattava di un cartoncino di 20 centimetri per 10 da inserire dentro il portascheda, che andava punzonato con una specie di penna in prossimità del nome del candidato prescelto.

Quando la contea di Palm Beach risultò decisiva per assegnare la Florida (e la presidenza), si decise di ricontare le schede e scoppiò il caos.

Perché la punzonatura fatta dai pensionati non sempre era netta e precisa e l’intenzione di voto era tutt’altro che chiara. Il Paese ben presto si divise sui chads, i coriandolini di carta rimasti attaccati alla scheda, che venivano interpretati in modo diverso dai legali repubblicani e dai democratici. Riunioni estenuanti tra giudici, funzionari della contea e team legali di Bush e Gore cercarono di stabilire le regole per il riconteggio. I repubblicani volevano limitare il numero di schede valide, i democratici avevano l’obiettivo opposto. Fu stabilita una sunshine rule secondo la quale se sollevando la scheda si intravedeva la luce attraverso la fessura di un voto punzonato, il voto sarebbe stato ritenuto valido.

Nella grande sala dove avvenivano i conteggi, per ore si assisteva quindi a scene di questo tipo: il giudice Charles Burton, che guidava le operazioni di voto, sollevava una scheda e dichiarava solennemente «vedo una luce!». Il rappresentante di Gore concordava, quello di Bush scuoteva la testa, «non c’è luce, non la vedo» e tutto si bloccava.

Il tribunale locale fu attivato 24 ore su 24 per decidere su ricorsi dei due team. Uno voleva che fossero ritenute valide anche le schede con pregnant chad, le schede incinta in cui il coriandolino era stato premuto, si era gonfiato ma non si era staccato. L’altro ribatteva che dovevano valere solo gli hanging chad, pezzetti di carta appesi a un solo angolo dei quattro da staccare con la punzonatura.

Gore voleva ricontare tutte le schede, perché dopo una verifica su un campione dell’1% (4500 schede) erano saltati fuori 19 voti in più per lui: il 100% in teoria poteva portargli 1900 voti e la Casa Bianca. Il problema era che ogni volta che quelle schede venivano riesaminate, per quanto fossero trattate come i rotoli sacri di Qumran con i testi del Vangelo, si staccava qualche chad. A ogni riconteggio, la situazione materiale non era più come quella precedente. Per questo, alla fine di un lungo iter giudiziario, fu la Corte Suprema di Washington a decidere che il risultato finale era quello della notte elettorale, dando la vittoria a Bush.

È inquietante immaginare cosa accadrebbe oggi in uno scenario simile. L’America era divisa anche allora, ma c’era un sostanziale rispetto delle regole. Bush aveva il fratello Jeb che guidava la Florida come governatore, Gore aveva alle spalle il suo boss, Bill Clinton, che sedeva ancora alla Casa Bianca, eppure le istituzioni rimasero sostanzialmente imparziali. La sfida legale fu affidata a team accaniti ma guidati da due gentiluomini di lungo corso come Jim Baker e Warren Christopher. In strada, a West Palm Beach, i sostenitori dei due candidati arrivavano anche a urlarsi in faccia a un centimetro uno dall’altro (il Covid era impensabile), ma poi appena si spegnevano le telecamere dei network Tv e si allontanavano i fotografi, si davano una pacca sulla spalla e proseguivano la discussione serenamente al pub.

Anche i media, oggi schierati in modo sempre più fazioso sulle due sponde, facevano un grande gioco di squadra. Per seguire il complesso riconteggio di ciascuna scheda senza creare caos, era stato deciso che nella sala delle operazioni di scrutinio sarebbe stato sempre presente un solo giornalista, che poi aveva il compito all’uscita di riferire ogni dettaglio a tutti gli altri. Vennero creati turni di mezz’ora, senza alcuna rivalità e con la massima collaborazione tra tutti. Ricordo quando un giornalista dell’Associated Press mi chiamò – all’epoca era un giovane inviato dell’Ansa a West Palm Beach – e mi chiese quale turno volessi fare.

Rimasi stupito che affidassero un compito del genere anche a giornalisti stranieri, ma per i colleghi americani era la cosa più naturale del mondo. Ero tesissimo nella mia mezz’ora di turno, sentivo il peso di tutte le elezioni presidenziali sulle spalle, temevo che avvenisse la contestazione decisiva che poi avrei dovuto raccontare a tutti i media del mondo in attesa là fuori. Non accadde nulla di rilevante, ma mi è rimasta la memoria e la sensazione di una democrazia all’opera, capace di superare anche uno stallo che nessuno aveva previsto.

Oggi sarebbe ancora così?

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