Cosa resterà degli anni 80La fine della giovinezza e dei nostri consumi culturali (da Lady D a Michael J. Fox)

La nuova autobiografia del protagonista di Ritorno al futuro e la serie tv sulla corona inglese riaccendono il ricordo, e qualche malumore, in chi è nato tra la fine degli anni 60 e l'inizio dei 70, pur sapendo che rivivere i beati anni del castigo è roba per noialtri un tempo sfaccendati

egor-myznik, Unspalsh

Se non siete stati piccoli (ma già abbastanza grandi da ricordarvene ora la televisione) negli anni 80, questo articolo non fa per voi. 

Se non siete stati piccoli (ma già abbastanza carta assorbente da memorizzare quel che vedevate) negli anni 80, quasi niente dei consumi culturali dell’ultimo decennio fa per voi. 

Siamo, noialtri che siamo nati tra la fine dei 60 e l’inizio dei 70, quelli che hanno inventato la giovinezza. 

Lo so, lo so: pensavate l’avessero inventata i ventenni degli anni 60, figli dei fiori, sessantottini, e tutto il cucuzzaro. Macché. La giovinezza non è stata un’industria finché noialtri sfaccendati che negli anni 80 andavamo a scuola non abbiamo deciso che, siccome era capitato a noi da piccoli, allora era importante. 

Che valeva la pena riesumare i gruppi musicali, rifare i film, struggersi per le sigle (YouTube è stato inventato per la nostra vocazione di nostalgici). Siamo una generazione che è riuscita a imporre così tanto le proprie madeleine al mondo che in questo secolo si parla dei Duran Duran come fossero viventi. 

Martedì esce in America la quarta autobiografia di Michael J. Fox. 

Per chi ha la disgrazia di non aver vissuto gli anni 80, Michael J. Fox è quell’attore malato di Parkinson che ha interpretato il disabile stronzissimo in un po’ di serie televisive recenti, da The Good Wife a Designated Survivor. 

Per noialtri che abbiamo vissuto gli anni 80, Michael J. Fox è il primo caso in cui capimmo che quelli di sinistra potevano essere molto più insopportabili dei conservatori: in Casa Keaton, che andava il pomeriggio su Canale 5, era il figlio repubblicano d’una famiglia di fricchettoni. Gente che se fosse viva oggi farebbe la rivoluzione a botte di cancelletti. 

Ma, soprattutto, Michael è quello di Ritorno al futuro, forse il film più universale della nostra generazione. Il bambino che mi piaceva – e che mi indicò lo schermo bullandosi «io sono bravo così ad andare sullo skate», mentre il ragazzino californiano sfrecciava in modi che sotto i portici bolognesi t’avrebbero fatto arrestare – nel frattempo è diventato primario in un ospedale, e questo è l’unico dettaglio che mi costringe ad arrendermi al fatto che da Ritorno al futuro sono passati trentacinque anni. 

Di lì a poco, sarebbe arrivata la mazzata: a Michael J. Fox diagnosticarono il Parkinson nel 1991. Da quando, a fine anni Novanta, ha reso pubblica la sua malattia, ha finanziato con la sua fondazione ricerche sul Parkinson per un miliardo di dollari, e ha pubblicato tre memoir in cui dice che la vita può essere comunque bellissima. Al New York Times ha detto che questo nuovo libro l’ha scritto perché a un certo punto si è reso conto che forse aveva detto un sacco di cazzate: la vita può essere orrenda. 

Gli è venuto il dubbio quando l’hanno operato d’un tumore alla colonna vertebrale, e mesi dopo, mentre faticosamente ricominciava a camminare, è caduto fratturandosi malamente. Gli è venuto il dubbio perché quando qualcuno ti spinge su una sedia a rotelle non sente quello che gli dici, e se alzi la voce sei subito Blanche in Che fine ha fatto Baby Jane? (è un’intervista per gente che c’era negli anni Ottanta, quando pur non avendo lo streaming guardavamo tutti i film vecchi). 

Pur di rivivere i beati anni del castigo siamo disposti anche a guardare The Crown, quello che in tempi meno scemi sarebbe stato un film coi sosia del pomeriggio di Rete 4 e adesso ci viene spacciato come un prodotto raffinato. 

Nella stagione messa in vetrina ieri, si arriva finalmente alle nostre infanzie. Al 1979, cioè a Margaret Thatcher e a Diana Spencer. Che però The Crown ci camuffa da Diana anni 90, deludendo moltissimo tutte noi che, bambine nelle case al mare, guardammo sedute per terra il matrimonio con quelle maniche a sbuffo così orrendamente nello spirito del tempo. 

La goffa e pacioccona e malvestita (nella realtà) Diana del ’79 arriva a Balmoral (nella rappresentazione) con gli occhi truccati come nell’intervista televisiva di sedici anni dopo, quella in cui erano in tre in quel matrimonio. Una trentenne sofisticata. Ma per favore. Un po’ di rispetto per la nostra estetica di formazione. 

Si resta lì a interrogarsi d’interrogativi senza risposta. L’invasione dei monopattini nell’ultimo anno sarà l’ultimo cascame di Ritorno al futuro? Michael J. Fox che racconta d’aver smesso di recitare perché il Parkinson non gli concede più il controllo completo della voce, e fare affidamento sulle proprie parole per un attore non è secondario, è fortunato o sfortunato rispetto a Diana Spencer che morì trentaseienne? 

Era lo stesso interrogativo, nel Novecento, cambiavano solo gli esempi: è meglio essere Marilyn Monroe, morire giovani e lasciare poster uno più bello dell’altro, o essere Brigitte Bardot, smarrire la propria principale qualità (sia essa la fotogenia o la giovinezza o altro), ma essere, santo cielo, vive? 

No time like the future, non c’è tempo all’altezza del futuro, dice il titolo del nuovo libro di Michael J. Fox. Magari domani trovano una cura per il Parkinson, e può provare uno di quei nuovi monopattini, zittendo i ragazzini che lo guardano ridendo: lui ci andava quando i loro genitori neanche ancora limonavano.

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