«I veri uomini non ballano: lavorano, bevono, hanno mal di schiena». È il 1997 quando, in “In & Out”, Kevin Kline è un insegnante di provincia che compra un nastro che dovrebbe aiutarlo a «esplorare la sua mascolinità», cioè a scoprire se è gay. La prova principale è resistere alla voglia di ballare. La fallirà. Mancano ventitré anni a quando Donald Trump chiuderà i comizi ballando “YMCA”.
“YMCA” e “I will survive” (la canzone che Kevin Kline non resiste alla tentazione di ballare) hanno in comune l’essere considerati inni gay. Quindi, quando il Donald balla “YMCA” come vostro zio ubriaco a Natale, accadono due cose.
Una è che lo irridiamo: che orrore, che scarsissima coolness, che imbarazzo. Non ci poniamo minimamente il problema del diritto di nostro zio a essere rappresentato nella sua goffaggine: nostro zio mica è una minoranza, è un uomo bianco, un privilegiato, un prevaricatore.
La seconda cosa che accade è che c’indigniamo: come osa appropriarsi d’una canzone della comunità LGBTQ – e tutte le altre consonanti («alphabet people», per citare David Chappelle, che è il più grande comico vivente e quindi Zingaretti lo considerebbe omofobo, transfobico, e probabilmente colpevole d’abigeato).
Siamo noi i custodi della sensibilità nei confronti degli omosessuali, noi che sappiamo che non si doveva permettere, noi che ci autocertifichiamo giudici ultimi di cosa sia giusto e chi si senta rappresentato da chi.
Solo che poi arriva l’analisi del voto, e ci dice che la percentuale della comunità delle consonanti (quelle consonanti che non sono etero, o non si sentono del sesso di cui son nate, o altre divagazioni nel settore sessuale) che ha votato Trump è, rispetto al 2016, raddoppiata. Magari a loro il balletto su “YMCA” è piaciuto. Magari non tutti gli appartenenti alla stessa categoria hanno la stessa opinione – oddio, santo cielo, sto bestemmiando l’unica religione del nostro tempo: la politica identitaria.
«Walter, io mi fido di te, dico Walter, un paese moderno con Walter». È il 2008, l’anno dell’avvento di Barack Obama – che meglio di Trump, meglio di Gene Kelly, meglio di Roberto Bolle, all’inizio dell’anno successivo danzerà al ballo inaugurale della propria presidenza – quando una sezione del PD milanese prende “YMCA” e ci mette un testo che se la gioca con “Meno male che Silvio c’è” quanto a culto della personalità; e lo fa perorando la causa della vocazione maggioritaria: «se Mastella non c’è, tanto meglio perché noi vogliamo cambiar con te».
Nel video si notano altri prodotti di quel PD milanese: c’è Lia Quartapelle (oggi deputata), c’è Pierfrancesco Maran (oggi assessore milanese). C’è la classe dirigente che dodici anni dopo ci saremmo potuti permettere. «Puoi premiare il talento con Walter», d’altra parte: era una canzoncina che prometteva, e poi manteneva.
Lo slogan della canzoncina (lo slogan del partito, ricorderete se non avete rimosso i ricordi di quella drammatica stagione) è «Si può fare». Nell’anno dell’«Yes, we can» obamiano. Magari ci avevano pensato prima loro, ma a volersela tirare da studiosi di comunicazione verrebbe da pensare che la differenza tra il tanto irriso balletto di Trump e il rifacimento milanese di “YMCA” è che il Donald è genuino nel suo essere kitsch, «Si può fare» è trash, ovvero tragica emulazione fallita di modello alto. Fatta con la convinzione d’essere ironici, certo. Ma non abbastanza da intitolarla “Meno male che Walter c’è”.
La vera incognita è se le intenzioni e l’atteggiamento si recepiscano. Se, cioè, Donald che balla e i milanesi che cantano abbiano poi un pubblico così diverso. Se non ci sia un grande bacino indifferenziato che va dai trenini a capodanno alle trasmissioni di Carlo Conti, dalla serata delle cover di Sanremo all’elettorato che vota quel che gli viene in mente al momento e non si prepara per mesi alle elezioni convinto di salvare il mondo con la sua scheda, dall’elettore che osa votare per i propri interessi all’osservatore che pensa che Make America Great Again te lo ricordi, ha ritmo, è sufficientemente generico, e insomma cosa vuoi di più da uno slogan?
L’incognita è se tutto quel che il grande pubblico vuole non sia “Furore”, quella trasmissione degli anni Novanta che era la versione televisiva del comfort food: le canzoni famose che tutti ma proprio tutti sanno a memoria, quelle che puoi squarciagolare dal divano, quelle che può ballare lo zio ubriaco, quelle con cui fai il karaoke ai matrimoni.
Se, alla fine, il protagonista delle elezioni americane non sia tale e quale a uno spot della sinistra italiana del decennio scorso. Si comincia con “YMCA”, e si finisce a commentare le elezioni altrui in una estenuante diretta elettorale.
Il Walter della canzone l’altra notte era su La7 a spiegarci l’America, e io ora sogno di vedere, nei prossimi anni, Donald sulla Fox che commenta una qualche amministrativa italiana, sfoggiando una certa qual sapienza circa gli spostamenti di consiglieri comunali in Lucania.