Ho passato le ultime ventiquattr’ore a immaginare una serata del congresso democratico, quello in cui si è ufficializzata la candidatura di Joe Biden come presidente dei buoni, presentata da Kevin Spacey, che in House of Cards passava per il più irredento stronzo dei politici televisivi.
Non sarebbe potuto accadere non solo perché Spacey è ormai considerato un impresentabile maniaco sessuale, ma soprattutto perché la stampa americana, come quella italiana, ha in orrore i prodotti televisivi di successo, e studia invece quelli di nicchia.
E quindi laggiù sanno che il Frank Underwood di Spacey è un mostro, mica il personaggio cui affideresti un compito istituzionale volendo ribadire che tu sei i buoni. Invece Olivia Pope, protagonista di Scandal, la guardavano dieci milioni di spettatori, e quindi possiamo permetterci di sbagliarne la percezione.
Molto prima che Trump facesse entrare “rigged” nel lessico comune, le spettatrici di Scandal sapevano tutto di come si trucca un’elezione. Gliel’aveva insegnato Olivia Pope a Defiance, paesino dell’Ohio (e parola che significa “sconfitta”: gli sceneggiatori di Scandal erano gente che pensava che, se il gioco per gli adattatori si faceva duro, peggio per loro).
A Defiance avevano truccato le macchine elettorali, sennò Fitz (il repubblicano buono di cui Olivia era amante e spin doctor, un pesce lesso di fianco al quale Joe Biden sembra Steve McQueen) non avrebbe mica vinto quelle presidenziali lì. L’avevano fatto su suggerimento d’uno dei cattivi cui s’accompagnavano, un sosia di Trump che è la principale ragione per rivedere Scandal (lo trovate su Prime) e gioire di quanto fosse avanti, e inverosimile, e realista, e kitsch.
Quando la storia delle macchine elettorali truccate rischia di venir fuori, in Scandal nessuno si fa mezzo scrupolo: Frank Underwood era un dilettante, quanto ad ammazzare ostacoli sulla strada del potere.
Epperò – siccome Kerry Washington aveva dato a Olivia Pope il labbro vibrante e lo sculettamento offeso; siccome Olivia era così determinata ad atteggiarsi a vittima d’un mondo meno morale di lei; siccome sì, vabbè, ammazzava un vicePresidente, ma aveva avuto un’infanzia infelice – allora mercoledì sera Kerry Washington ha presentato i discorsi dei politici, ha ricordato le lezioni di educazione civica di terza media, e si è pure tenuta i ricci (che pare essere considerata la massima forma d’eroismo per donne democratiche in questo 2020, e chiunque sia mai stata riccia non se la sente di contraddire questa percezione).
A nessuno è venuto in mente che non fosse la scelta giusta; e non perché, sì, Kerry Washington è personalmente impegnata in politica (ha appena prodotto un documentario sulle cause intentate dall’Aclu, l’associazione per i diritti civili); o perché Scandal è finito da anni e riconosciamo agli attori il diritto di emanciparsi dai ruoli: quando mai, se sei stato Bobby Ewing sarai tutta la vita Bobby Ewing, e se sei stata la ladra di elezioni Olivia Pope la tua presenza in un contesto istituzionale fa pensare ad almeno dieci milioni di americani «ah, quindi intendono vincere purchessia».
Guardando Kerry nel ruolo di Kerry che faceva le stesse esatte mossette di Kerry nel ruolo di Olivia, mi sono chiesta se il gigantesco equivoco per cui Olivia Pope era uno dei buoni (l’inventrice di Scandal, Shonda Rhimes, ha spesso detto di non sapersene capacitare) non sia una benedizione, una strategia vincente, una visione di come si possa vincere quando si è destinati a perdere. Se Olivia Pope non sia la continuazione ideale dello Sherman McCoy del Falò delle vanità, quello che si rendeva conto che l’unico modo per far trionfare la verità era mentire.
Mentre mi dicevo che Spacey non l’avrebbero mai chiamato a presentare quella serata, neanche prima degli scandali sessuali, perché lui la stronzaggine ce l’ha lombrosiana, mentre se sei donna e nera puoi atteggiarti a vittima anche mentre sei carnefice e nessuno metterà in dubbio il tuo occhione liquido e la tua narice tremebonda, ho pensato che forse mi sbagliavo: forse non era perché Olivia Pope non l’avevano studiata.
Forse era proprio quel che volevano. Dirci che sono disposti a tutto. A tutto quel che serve fare per vincere. Anche ad allearsi coi cattivi per far trionfare i buoni. Anche a fingersi buoni sebbene consapevoli che la politica sia sangue e merda (Rino Formica evidente maestro di Olivia Pope).
Anche a lasciarsi i ricci, mettersi un tailleur che possa piacere alle elettrici della profonda provincia, e dirci che tutto è migliorabile, persino la Costituzione, figuriamoci se non lo sono le elezioni.
Anche a decidere che questi non sono tempi per Frank Underwood, che era sbrigativo e insofferente, e all’elettorato avrebbe detto di lagnarsi di meno. Sono tempi per Olivia Pope, che rievoca come le donne non avessero diritto di voto e ogni nero pesasse elettoralmente tre quinti d’un bianco, ma ora ci prende per mano e ci porta in un mondo migliore. Governato da lei, grazie a qualche chip manomesso a Defiance.