La leadership aziendale non è mai stata facile, e non conta se sei il CEO o un manager su uno scalino più basso della catena del comando.
Ai vecchi tempi, cento o più anni fa, i manager sapevano esattamente che cosa fare: trovare persone che svolgessero il lavoro richiesto. Dire loro che cosa fare e accertarsi che eseguissero con precisione gli ordini. Fu la gestione scientifica di Frederick W. Taylor a codificare questo approccio. Gli ingegneri industriali mappavano i processi di lavoro efficienti e i capi si accertavano che il lavoro venisse svolto.
Col passare del tempo molte cose sono cambiate. Molti lavori sono diventati più complessi. Molti lavoratori hanno apportato abilità e opinioni proprie e mostrato una certa reticenza ad accettare passivamente le istruzioni.
La famosa Teoria Y di Douglas McGregor – che lui contrapponeva all’antiquata Teoria X del «dite loro che cosa fare» – incarnava uno stile di gestione diverso, che si diceva fosse più adeguato al nuovo contesto. Ascoltate, non parlate. Abbiate fiducia nei vostri dipendenti. Incoraggiateli ad assumersi la responsabilità.
Ma per quanto le scuole di business e le culture aziendali spesso sostengano a parole i principi della Teoria Y, il più delle volte dirigenti e manager hanno ripiegato su una versione ingentilita della Teoria X. Magari senza gridare e impartire ordini a destra e a manca, ma anche senza lasciare alcun dubbio su chi è che prende le decisioni.
Del resto, perché si sarebbero dovuti comportare diversamente? Dopotutto in questo modo sarebbero stati giudicati e premiati in base a indicatori inconfutabili. Dovevano rispettare i loro obiettivi di vendita, i loro obiettivi di costo, i loro budget. Dovevano prevedere che cos’avesse in serbo il futuro e rispondere adeguatamente. I CEO e, per estensione il consiglio di amministratore e gli azionisti, non volevano sentire scuse. Volevano vedere i risultati.
E così i manager si buttavano a capofitto nel lavoro, si rimboccavano le maniche, dicevano per filo e per segno ai loro sottoposti che cosa fare e, se necessario, lo facevano loro stessi. Come i guardiani delle fabbriche di un tempo, sapevano che il loro lavoro era assicurarsi che gli altri facessero il proprio.
Ma come tutti continuano a ricordarci, oggi i tempi sono cambiati ancor di più. Negli ultimi anni è diventato più difficile per i leader mantenere questo stile di gestione.
Prevedibilità? Neanche a parlarne. Il mondo cambia troppo rapidamente. A ogni angolo sbucano nuovi concorrenti. La tecnologia continua a evolvere, spesso a un ritmo troppo veloce per starle al passo.
Manager promettenti e giovani specialisti funzionali sembrano aspettarsi ben più di quanto un’azienda sia effettivamente in grado di dar loro. Opportunità di crescita. Più guadagni. Equilibrio tra vita e lavoro. I manager che hanno gestito con successo le proprie aziende negli anni Novanta o Duemila – e che grazie a questo sono stati promossi a ruoli con responsabilità via via maggiori – possono trovarsi spaesati.
Non sorprende dunque che siano in così tanti a pensare di lavorare di più avendo però meno da mostrare. Non sorprende neanche che di tanto in tanto avvertano il raccapricciante sospetto che stanno sbagliando tutto.
Henk Becker della divisione Elettroutensili Bosch ha avuto questo dubbio all’inizio. Era entrato in Bosch subito dopo la laurea in ingegneria meccanica.
Partito dalla divisione Automotive della società, è salito di rango nel corso degli anni affinando le sue abilità e competenze tecniche. All’epoca avere successo significava dare il meglio di sé come responsabile di funzione, mostrando alle persone che cosa fare. Dopo aver trascorso più di vent’anni in posizioni di questo tipo, è entrato a far parte del consiglio esecutivo della divisione Elettroutensili nel 2013.
Inizialmente si occupava di progettazione e qualità, in seguito ha maturato esperienza anche nel campo della produzione e nel 2019 è stato nominato CEO della divisione.
A sentire lui, tuttavia, nella divisione Elettroutensili qualcosa era cambiato. Un manipolo di coraggiosi manager aveva cominciato a dargli un tipo di feedback che non aveva mai ricevuto prima.
Secondo questi riscontri, il suo stile di leadership non lo stava aiutando ad avere successo. Non lo stava aiutando a tirare fuori il meglio dalle persone e non stava aiutando la divisione a diventare leader di mercato. Queste persone gli hanno detto in che modo desideravano essere guidate, con tanto di esempi.
Quell’esperienza, ricorda Becker, «ha fatto scattare qualcosa nella mia mente e nel mio cuore». Ha deciso di cambiare il suo atteggiamento e il suo comportamento, cominciando un processo di autoriflessione e sensibilizzazione. Ha chiesto feedback più frequenti.
All’inizio i suoi team erano scettici: era solo una stramberia passeggera o faceva sul serio? Lentamente è riuscito a creare un clima di fiducia e ad ampliare il gruppo di persone che gli fornivano attivamente i propri feedback.
Becker ha cambiato prospettiva concentrandosi sul potenziale e sulla forza delle sue persone e dell’organizzazione. Dice di aver cercato di non focalizzarsi sulle mancanze e di aver cominciato dall’utilizzo di un linguaggio positivo.
Ha iniziato a chiedere «Come possiamo riuscirci?» invece di fare interrogatori per capire il motivo per cui non fosse possibile fare una determinata cosa. Si è concentrato sull’ascolto e sulla comunicazione bidirezionale. Per rinforzare il suo impegno ha rinunciato al suo ufficio e al posto auto.
Inoltre ha smesso di chiedere alle persone di portargli presentazioni PowerPoint, andando lui personalmente dai team e fidandosi delle informazioni che stavano già utilizzando. Ci è voluto del tempo, ammette, ma è diventato un leader diverso, un leader in grado di lanciare una trasformazione agile vincente.
da “Fare agile nel modo giusto. Per una trasformazione senza caos”, di Darrell Rigby, Sarah Elk, Steve Berez, Egea, 2020, 30 euro