Il grande gapIl nuovo mondo richiede una nuova formazione, ma l’Italia è indietro

Le figure professionali del futuro vanno preparate fin da oggi: come spiega Alfonso Fuggetta in “Il Paese innovatore” (Egea) serve apprendimento continuo e versatilità multidisciplinare. E tutti gli attori in campo (Stato e aziende) dovranno contribuire

CHARLY TRIBALLEAU / AFP

Uno dei problemi principali del Paese è la formazione dei nostri giovani (e non solo). Abbiamo una dispersione scolastica troppo alta, un livello medio di formazione basso, un’insufficiente focalizzazione sulle materie STEM, investimenti insufficienti, specialmente se si tiene conto che non si tratta di «mantenere in linea» un sistema che funziona, ma di recuperare con urgenza una serie di ritardi.

Eppure il dibattito su questo tema è troppo spesso distorto da alcuni errori e fraintendimenti di fondo che continuano a condizionare negativamente le scelte di imprese, decisori politici, lavoratori, giovani, media, insegnanti. In particolare, vorrei qui segnalarne alcuni che ritengo particolarmente critici.

Formazione di base

Le aziende – e non solo – chiedono persone «ready-made», «plug & play», «pronte all’uso», istruite a fare le operazioni e le attività che sono svolte in azienda. Siamo ormai quasi arrivati a dire – estremizzo a scopo dialettico – che non serve formazione, ma puro addestramento: «spiegate loro come usare ciò che serve in azienda e diplomateli il più presto possibile».

È una postura drammaticamente sbagliata sia per le aziende sia per i nostri giovani che dovranno lavorare per oltre 40 anni in un contesto caratterizzato da veloci e imprevedibili cambiamenti tecnologici, scientifici e anche sociali e culturali.

Dobbiamo investire in formazione di base, in tutto ciò che aiuta il formarsi di una personalità matura, capace di imparare continuamente e di vedere il processo di studio come stato permanente del suo essere professionista (e cittadino).

Le imprese non devono pensare solo a ciò che serve loro a breve termine, ma a quali siano le scelte, le competenze, il know-how, il capitale umano che permetterà loro di sopravvivere e crescere nel medio-lungo periodo, come spiega eloquentemente Simon Sinek nel suo più recente saggio, “Il gioco infinito”: non ci sono «arrivi», si corre sempre, ogni volta per una nuova tappa, un nuovo sviluppo, una nuova sfida, in un percorso che non termina mai.

A questo dovremmo preparare i nostri giovani e non ad essere banalmente pronti a usare questo o quello strumento che l’azienda sta al momento utilizzando.

Formazione infinita

Se questo è lo scenario, le aziende devono considerare la formazione non un costo da limitare o da coprire con qualche finanziamento pubblico «se proprio si deve», ma una linea di investimento strategica per la competitività, forse la più importante di tutte. Ci si forma sempre, ogni giorno, continuamente, per sempre.

Da questo punto di vista, con limiti e imperfezioni, la riforma universitaria del 3+2 e tutto ciò che è ad essa collegata definiscono un paradigma che va in questa direzione.

La modularizzazione dei corsi di studio permette di organizzare e combinare in modo personalizzato e flessibile (sia come contenuti sia come posizionamento temporale) i momenti di studio e di crescita del singolo. A essi si aggiungono ulteriori strumenti quali i master e i corsi di perfezionamento, o forme di studio e sperimentazione come per esempio i corsi online, i project work, le attività di coaching & mentorship. È un ventaglio di strumenti che permette di affiancare in modo continuo e flessibile momenti di studio e di approfondimento a quella che è l’intera storia professionale del singolo.

Se la formazione tradizionale era pensata per persone che studiavano all’inizio della loro vita per poi dedicarsi al lavoro e alla professione, la formazione moderna dev’essere un elemento permanente che accompagna ogni fase dell’esistenza di un individuo. In generale dobbiamo rimettere al centro del dibattito politico, culturale e sociale il tema della formazione come costituente strutturata della vita delle persone.

Purtroppo anche in questo caso il nostro Paese non svetta nel panorama internazionale: la percentuale di persone che seguono attività formali e non di formazione è tra le più basse d’Europa.

Lo Stato deve considerare l’investimento in formazione una priorità vitale. Le imprese devono considerare le spese in formazione non un costo, ma un investimento centrale per la loro crescita e sviluppo. È uno degli aspetti della responsabilità sociale dell’impresa verso i propri collaboratori e verso la società in generale.

Come ripete spesso l’amico Carlo Alberto Carnevale Maffè, l’assenza di formazione equivale a una forma di inquinamento sociale e deve essere combattuta in modo simile: come chi inquina deve acquistare certificati di credito per CO2, così chi non forma i propri collaboratori «inquina» la società e quindi deve pagarne il prezzo. È un principio essenziale per spingere nella direzione giusta il mondo delle imprese.

Multidisciplinarietà di team e modello «a T»

Oggi si fa un gran parlare di multidisciplinarietà intendendo, erroneamente, che una singola persona deve sapere un po’ di tutto (di un certo settore di mercato) per poter affrontare in modo competente le sfide che si troverà davanti nella sua attività professionale.

In realtà, la complessità delle materie fa sì che non sia possibile e quindi non abbia senso costruire nella singola persona una figura multidisciplinare, a meno di non pagare un prezzo altissimo in termini di superficialità e inconsistenza professionale.

Il criterio guida dev’essere radicalmente diverso. Ciascun individuo deve avere una sua precisa professionalità, forte, chiara, definita. Come diceva Thomas Huxley, «Try to learn something about everything and everything about something».

La vera multidisciplinarietà si realizza non in figure amorfe e indistinte, ma nell’incontro di eccellenze, nella combinazione di competenze profonde e complementari, nella creazione cioè di team multidisciplinari. Perché ciò avvenga dobbiamo costruire percorsi educativi che spesso vengono chiamati «a T»:

• una gamba verticale profonda e solida che definisca la professionalità della persona (ingegnere elettronico, specialista in cardiochirurgia, agronomo, industrial designer): quel «qualcosa di cui cerchi di sapere tutto»;

• una barra orizzontale ampia che permetta alla persona di interagire con altre portatrici di culture e competenze complementari. Elemento essenziale di questa barra orizzontale sono, per esempio, le soft skill.

Nota. Mentre sto completando la stesura finale di queste pagine leggo che è venuto a mancare Sir Ken Robinson, docente e studioso dei processi formativi. Il suo intervento al TED 200611, il più visto di sempre, mi mise in crisi. Ogni tanto lo riguardo. Dovremmo farlo tutti.

da “Il Paese innovatore. Un decalogo per reinventare l’Italia”, di Alfonso Fuggetta, Egea, 2020

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