Pechino chiama, Washington rispondeNon rilassiamoci, una guerra tra grandi potenze è ancora possibile

Il nuovo ordine internazionale ha evitato conflitti tra gli Stati economicamente e militarmente più forti, almeno dalla fine della Seconda guerra mondiale. Un’analisi di Foreign Affairs ci ricorda come le condizioni che in passato hanno portato ai conflitti più accesi, come quello tra Paesi europei nel 1914, siano presenti anche nello scenario geopolitico attuale

AP/LaPresse

Nel mondo sono in corso molti conflitti militari, dall’Afghanistan alla Siria, dallo Yemen al Sudan. È dalla fine della Seconda guerra mondiale però che non ci sono conflitti diretti tra grandi potenze. Una condizione quasi eccezionale rispetto alla grande quantità di guerre tra Paesi militarmente molto attrezzati da quando è stato definito l’ordine mondiale dominato dagli Stati-nazione nel 1648, con la Pace di Vestfalia.

Una lunga analisi della rivista Foreign Affairs porta l’attenzione sull’assenza di guerre tra superpotenze: «L’assenza di conflitti dal 1945 è sorprendente, ma non significa che siano ormai impossibili». L’articolo firmato da Christopher Layne parte da una critica ad alcune affermazioni di esperti del settore, studiosi di relazioni internazionali e analisti politici che si sono affrettati a etichettare come storie del passato le guerre tra grandi potenze. Il punto di partenza è che «le condizioni che rendono possibili questi scontri esistono ancora, le tensioni ci sono, così come diversi potenziali inneschi».

Il focus dell’analisi di Layne è inevitabilmente su un possibile scontro militare tra Stati Uniti e Cina. I rapporti diplomatici tra le due superpotenze di quest’epoca negli ultimi anni sono in una fase di sfaldamento progressivo. Certo, nel discorso pesa e peserà molto anche l’elezione di Joe Biden alla Casa Bianca: non è lecito aspettarsi un atteggiamento di condiscendenza nei confronti di Pechino, ma non è escluso che l’ex vice di Barack Obama adotti un approccio più morbido e lineare, almeno inizialmente, rispetto a quello avuto da Donald Trump nel corso della sua amministrazione.

Il primo invito è a non seguire quel mal riposto ottimismo di chi considera l’interdipendenza tra due economie come un muro invalicabile: in questo senso la storia, con l’esempio del conflitto tra Paesi europei nella Prima guerra mondiale, insegna che i rapporti economici da soli possono bastare a impedire un conflitto.

«La storia dimostra anche che i legami che dovrebbero scongiurare una guerra tra grandi potenze sono più deboli di quanto spesso appaiano. La rivalità tra Regno Unito e Germania che portò alla guerra nel 1914 mostra come due grandi potenze possano essere trascinate inesorabilmente verso un conflitto che sembrava altamente improbabile, fino al momento in cui è iniziato. E i parallelismi con la competizione odierna tra Stati Uniti e Cina difficilmente potrebbero essere più chiari», scrive Layne.

All’inizio del Novecento, la Weltpolitik tedesca voluta da Guglielmo II, cioè la costruzione di una grande flotta e di qualcosa che potesse somigliare a un impero coloniale, poteva essere letta come una sfida al primato economico, tecnologico e navale britannico. La Germania non voleva necessariamente scalzare il Regno Unito, ma voleva raggiungere lo stesso status. Così nonostante i legami commerciali, Londra iniziò vide nell’ascesa tedesca una minaccia alla sua supremazia. «C’erano fattori importanti – scrive Foreign Affairs – che avrebbero potuto promuovere la pace: commercio, legami culturali, élite interconnesse, solo per citarne alcuni. Ma una volta scoppiata la guerra, gli inglesi arrivarono rapidamente a intendere il conflitto come una crociata ideologica che contrapponeva il liberalismo all’autocrazia e al militarismo prussiano».

I parallelismi tra l’antagonismo britannico-tedesco e le attuali relazioni tra Cina e Stati Uniti sono un segnale. Così come il Regno Unito sentiva che la sua influenza sugli altri Stati era in calo, allo stesso modo oggi gli Stati Uniti risentono dell’ascesa di un altro Stato. Da parte sua, come la Germania prima della Prima guerra mondiale, la Cina vuole diventare la principale potenza della sua regione ed essere riconosciuta alla pari degli Stati Uniti a livello internazionale.

Un altro fattore di ottimismo da allontanare, secondo Foreign Affairs, sarebbe quello della deterrenza nucleare. Il rischio di una distruzione reciproca che causerebbe milioni e milioni di morti ha avuto un ruolo determinante durante la Guerra Fredda, impedendo che Stati Uniti e Unione Sovietica sfociassero in un conflitto militare vero e proprio. Ma oggi, ricorda Foreign Affairs «la combinazione di testate nucleari miniaturizzate a basso rendimento e sistemi altamente accurati ha reso possibile ciò che una volta era impensabile: una guerra nucleare limitata, che non si tradurrebbe in una distruzione apocalittica».

E ancora, molto spesso si fa riferimento all’ordine internazionale come un fattore di contenimento dei conflitti: il politologo John Ikenberry, ad esempio, ritiene che l’attuale ordine mondiale sia abbastanza stabile da essere destinato a durare ancora diversi decenni. In questo caso l’analisi di Layne prende le distanze citando l’ondata populista degli ultimi anni che ha investito soprattutto Europa e Stati Uniti, da Donald Trump a Viktor Orban, dalla Brexit all’ascesa della Lega in Italia, fino ai risultati elettorali ottenuti da Afd in Germania, Vox in Spagna, PiS in Polonia e Rassemblement National in Francia.

«L’ascesa del populismo e della democrazia illiberale è una reazione contro l’ordine attuale e le élite che lo sostengono e ne traggono profitto. Man mano che il sostegno interno all’ordine diminuisce e l’equilibrio del potere si sposta verso altri Paesi, il sistema diventerà inevitabilmente meno efficace nel mediare i conflitti», si legge nell’articolo.

Oltre a confutare le tesi più ottimistiche, l’analisi di Foreign Affairs prende in considerazione altri due elementi fondamentali che fanno immaginare che un conflitto tra Stati Uniti e Cina non sia un’ipotesi così remota.

Da una parte l’idea di Pechino di dover «compiere un passaggio allo status di grande potenza». Anche in questo caso c’è un insegnamento ricavato dalla storia, ma si va più indietro: a metà Ottocento le sconfitte cinesi per mano di Regno Unito e Francia nelle due guerre dell’oppio sono figlie di una incapacità dei quadri di Pechino di adattarsi ai cambiamenti della rivoluzione industriale.

«L’obiettivo a lungo termine della Cina – si legge nell’analisi di Foreign Affairs – non è semplicemente quello di arricchirsi, ma acquisire le capacità militari e tecnologiche necessarie per strappare agli Stati Uniti l’egemonia regionale nell’Asia orientale. La Cina ha aderito all’ordine mondiale non per aiutare a preservarlo, ma per sfidarlo dall’interno, e i risultati economici e militari sembrano premiare l’atteggiamento cinese».

Dall’altra parte, gli Stati Uniti stanno trasformando questa nuova rivalità in una sfida ideologica forzando una visione della Cina come «regime marxista-leninista», per usare le parole del Segretario di Stato americano Mike Pompeo.

Una retorica che «mira a gettare le basi per una fase più intensa del conflitto, richiamando le posizioni della Guerra Fredda, delegittimando il governo della Cina agli occhi del pubblico americano e dipingendo Pechino come un cattivo attore sulla scena internazionale», scrive Foreign Affairs.

I comportamenti più o meno ostili delle due grandi potenze hanno fanno sì che le relazioni bilaterali siano sempre meno stabili. Gli esempi non mancano: la guerra commerciale a colpi di dazi, le tensioni nel Mar Cinese Meridionale o il riconoscimento dell’indipendenza di Taiwan da parte di Washington.

Per Foreign Affairs queste frizioni sono inevitabili: «Per gli Stati Uniti rinunciarvi significherebbe riconoscere la fine del loro primato mondiale, per la Cina significherebbe abbandonare l’obiettivo di diventare potenza egemone dell’Estremo Oriente e di ottenere lo stesso status del rivale americano».

È ancora da capire se gli Stati Uniti possano, o vogliano, cedere il loro controllo sull’Asia orientale e riconoscere la posizione della Cina come una grande potenza al suo livello. «Se Washington non lo fa – spiega Christopher Layne – si apre una corsia preferenziale per la guerra, una guerra che potrebbe far impallidire al confronto i disastri militari del Vietnam, dell’Afghanistan e dell’Iraq».

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