Ci sono alcune espressioni di normale buon senso che non avremmo mai immaginato sarebbero diventate tema di discussione: «I voti vanno contati tutti», per fare solo l’ultimo esempio. Poteva sembrare perfino banale, di sicuro da non ripetere con voce stentorea, invece l’attualità ci dice il contrario. Nel suo ultimo saggio, La matematica è politica, Einaudi, Chiara Valerio (scrittrice, editor, conduttrice radiofonica, sceneggiatrice, un dottorato di ricerca in calcolo delle probabilità) prova a spiegare perché la politica ha smarrito certi automatismi, cosa lega la democrazia alla matematica, quali prassi le accomunano, cosa dovremmo ricominciare a praticare con entrambe. In questi giorni, però, un titolo e un argomento complesso come il suo assumono anche un senso diverso perché, questa settimana, la politica è stata proprio aritmetica. Quasi elementare. Siamo appesi alla conta di numeri esigui da giorni, contee e sacchi di lettere da centinaia di voti.
Ti colpisce quello che sta succedendo negli Stati Uniti?
Mi colpisce ma soprattutto mi conforta, perché la democrazia è un sistema di governo lento. Un tweet di Hillary Clinton diceva proprio questo: la democrazia funziona così, si conta fino all’ultima scheda. E quindi, anche nella surrealtà della situazione, mi conforta sapere che, in qualche modo, ci sia un tempo che non può essere abbattuto, soprattutto per un numero di voti così alto com’è quello degli Stati Uniti.
Ho notato che molti quando sentono parlare di matematica ripensano immediatamente alla matematica studiata a scuola. Come se vivessero in un mondo con poca matematica. Invece, a me sembra che mai come in quest’epoca siamo immersi nella matematica. Principalmente quella degli algoritmi che governano la nostra vita.
In Matematica degli dei e algoritmi degli uomini, Paolo Zellini assegna all’umano la progettatazione degli algoritmi. L’algoritmo è qualcosa che, soprattutto in un mondo in esplosione demografica come la nostra, covid permettendo, aiuta a sintetizzare e velocizzare i processi. Quindi sì, siamo immersi negli algoritmi, ma perché gli algoritmi ci semplificano la vita. Poi, certo, il passaggio dal semplificare la vita a indicarla e direzionarla dovrebbe essere mitigato e temperato dallo studio. E sarebbe importante non cedere alla tecnologia, ma sforzarsi di applicare quel principio scientifico che è esercitarsi a capire le cose. L’algoritmo è spaventoso quando diventa estraneo all’umano o estraneo al motivo per cui è stato pensato dagli umani. Ma, a me, in generale, ancora non spaventa.
Però qualcuno che sfrutta gli algoritmi per imprigionare gli altri, o se imprigionare ti sembra eccessivo, diciamo per condizionare gli altri esiste già.
Non è eccessivo. Per tornare agli Stati Uniti, la maggior parte degli algoritmi che oggi regolano il mondo sono stati realizzati da uomini bianchi ed è chiaro che se la progettazione viene realizzata dal maschio bianco il risultato non sarà mai qualcosa che metterà in discussione il potere del maschio bianco, sarà conservativo. Perciò imparare il coding per le bambine sarebbe importante e potrebbe portare anche a una liberazione di genere. C’è un libro di Ivana Bartoletti che in italiano non è ancora uscito in cui ci si domanda il (e si risponde sul) perché le aiutanti digitali, Siri o Alexa per esempio, siano tutte femmine. Perché consideriamo ancora le mansioni di cura o di assistenza come propriamente femminili? Chi progetta gli algoritmi?
A due giorni di distanza esce su Nature uno studio secondo cui i bambini piccoli non diffondono il nuovo coronavirus e su Lancet uno studio secondo cui chiudere le scuole è utilissimo a contenere l’epidemia. Questa confusione, sicuramente necessaria, non genera anche sfiducia nella scienza?
L’evidenza che la scienza non dia certezze, ma soltanto indicazioni e ipotesi, ci frastorna perché non coltiviamo da tempo un atteggiamento scientifico rispetto alle cose. E perché la scienza non può prescindere da una comunità: uno fa un’ipotesi, la comunità scientifica la vaglia e, poi, decide se proseguire lungo quella strada. Ci siamo abituati, invece, a una visione della scienza limitata alla tecnologia. Solo che la tecnologia ha a che fare quasi con la magia, con la religione, perché ha a che fare con l’azione a distanza, col telecomando, col miracolo. Ricordi quella stupenda pubblicità dell’Audi col bambino che cercava di avvicinare gli oggetti con le mani? Se la scienza è diventata semplicemente qualcosa che produce tecnologia e la tecnologia dà sicurezze nell’immediato e ripetibilità dello stesso è chiaro che quando la scienza si presenta nella sua veste di ricerca la cosa crei sconcerto. Perché si cercano nella scienza delle certezze che la scienza non possiede.
Adesso tocca alla lattoferrina come cura miracolosa anti-Covid. Prima abbiamo avuto la bevanda alle erbe malgascia, la cipolla rossa di Tropea, il medicinale giapponese. In questa fiducia ingenua, però, io trovo anche un elemento positivo: la disponibilità ad affidarsi.
Non c’è solo un aspetto deteriore nella fiducia. Confrontarsi col dover scegliere a cosa dare credito dovrebbe farci sviluppare un po’ di spirito critico rispetto alle cose.
Negli ultimi anni ci si è lamentati molto della fine delle competenze e dei competenti. La pandemia poteva essere la grande occasione della rivincita dei competenti.
La competenza non mi pare essere più utile in una fase di emergenza. Il motivo è semplice: alla competenza che di solito viene acquisita con studi e dubbi infiniti, nella situazione di emergenza, viene richiesta l’urgenza di una risposta binaria: Sì o No. Lattoferrina o erba malgascia. L’immagine che uno ha della competenza, però, così non corrisponde più a ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento: progetti e prospettive.
Perfino chi biasimava la fine della competenza adesso si sente più competente dei competenti.
La questione è che ci può anche essere qualcuno di molto competente a dire una cosa, e anche a dirla con un sì e un no, ma se poi quella cosa detta viene spezzata, inframezzata, ridotta a 146 caratteri, quando magari avrebbe bisogno di due pagine, allora quell’informazione specifica perde definitivamente il contatto con la competenza di chi la esprime. A quel punto ha a che fare più col modo in cui quell’ipotesi scientifica viene raccontata o detta che con l’informazione in sé. Spesso poi si approssima perché si pensa di conoscere la soglia di attenzione delle persone. Ma la competenza dovrebbe richiedere più attenzione, più spazio, più righe. Purtroppo è in assoluta controtendenza con la nostra pretesa e presunta velocità.
Molti hanno notato la differenza tra come ha comunicato bene Angela Merkel e come hanno comunicato male nel nostro governo. In un tuo tweet ho letto che parli addirittura di “dolo”. Cosa intendi?
Angela Merkel è un chimico e ha fatto un dottorato. Ciò significa che, in termini di comunicazione, ha fatto studi che le permettono di metaforizzare e trovare esempi più adatti. All’inizio ho pensato che quella dei nostri politici fosse una mancanza di competenza tecnica e basta. Conte è un giurista e pensavo, va bene, deve imparare le metafore della scienza. Ma a un certo punto, quando questo modo di dare i numeri – e intendo dare i numeri non come modo di dire, ma dare i numeri slegati da un contesto, numeri che somigliavano al lotto o al conteggio delle pecore, numeri che secondo loro dovevano dare indicazioni, ma che generavano solo smarrimento – ha perso ogni contatto con la realtà, ho pensato che fosse doloso perché è un modo di comunicare che genera confusione. E penso che la confusione e la mancanza di chiarezza li aiuti politicamente. Succede perché è un governo debole, senza grandi statisti o ministri che si comportano come tali, un governo che rincorre urgenze e vive di urgenze. E vivendo di urgenze produce urgenze, perché di esse si alimenta, e non di progettazione.
Il fatto che il Ministro della Salute abbia scritto un libro come se la seconda ondata non dovesse esserci dice molto.
Avrei avuto vederlo. Ma rimarrà uno dei grandi misteri editoriali su cui si riesce a mettere le mani.
21 parametri per indicare le diverse zone sono troppi?
Ma perché non cinque? Immagino che per gli scienziati 21 parametri siano necessari, ma dal punto di vista della comunicazione 21 parametri non sono governabili. Per me è come quando, in prossimità del DPCM, si diceva “non più di sei persone nelle case private”. Una di quelle norme che viene data senza possibilità di controllo. Per sconcertare e confondere il cittadino. Siamo immersi in una melma di parametri incontrollabili anche da parte di chi li dà. Perché dare norme inverificabili, impunibili, incontrollabili? E pure incostituzionale per quanto riguarda il domicilio?
Abbiamo una mentalità e un’abitudine burocratica. Tu pensi che la burocrazia sia una degenerazione della mentalità scientifica o umanista?
Penso che la burocrazia sia stata creata perché, al suo meglio, dovrebbe appianare le distanze sociali. La burocrazia dovrebbe servire il cittadino prima che servire al cittadino, a prescindere dalla sua posizione sociale. Che la burocrazia si sia trasformata negli anni in una serie di piccole nicchie di potere gestite da singoli esseri umani è un grande fallimento. La burocrazia è stata pensata per allargare la democrazia, invece finisce per farla inciampare.
È un tema che sembra toccarti particolarmente.
Mia madre ha lavorato come segretario comunale per tutta la vita. Faceva parte di quei burocrati che agivano nelle ultime satrapie dell’impero e cercavano di rappresentare e far funzionare lo stato anche in paesini di 700 anime. Sono cresciuta in un mondo dove la burocrazia significava collaborazione tra stato e cittadino. E non lo vedo più.
Sono di una provincia che confina con la tua, Latina e Caserta. Adesso si sentono tutti molto più scafati.
L’estrema proliferazione delle leggi fa sì che la dimensione etica di ciascun cittadino si abbatta. Non pensi più se una cosa è giusta o no per te o all’interno di una comunità, ma solo se quella cosa è punibile o sanzionabile. E quindi in qualche modo deleghi la scelta etica che ti tocca: dal voto fino al arrivare al parcheggio, giusto 5 minuti, sul posto riservato ai portatori di handicap. Sei in una guazza legislativa, dove le leggi si contraddicono l’una con l’altra, e dove si fanno cause – specialmente nelle nostre zone – per qualsiasi pretesto, senza curarsi di quale danno tu stia facendo alla comunità. Tra voler avere ragione e voler trovare una soluzione c’è una grande differenza, la seconda include il concetto di comunità.
“La matematica è politica” è un titolo alto. Ma la maggior parte delle persone, nel nostro paese, pensa che la politica sia “sangue e merda” secondo la definizione di Rino Formica. Credi che quando una visione di questo tipo conquisti un paese, com’è capitato da noi, sia possibile invertire la tendenza?
Non è impossibile perché è altrettanto semplice comprendere che sia la matematica che la politica ci dicono che l’autorità e le regole, per quanto sembrino assonanti, sono diverse. L’autorità si subisce, mentre le regole si contrattano e sono orizzontali. Tu e io siamo nati in un mondo dove esiste il divorzio e la sanità pubblica gratuita per tutti, ma sono entrambe conquiste degli anni ’70. L’idea che le regole disegnino un mondo è una cosa vera, da cittadini, io e te, in province come le nostre, l’abbiamo vissuta. A me piacerebbe vivere in un mondo in cui le persone omosessuali potessero godere di tutti i diritti della vita civile cui gli eterosessuali hanno accesso, come adottare un bambino. Oltretutto l’idea di non avere regole è un’altra regola. Non capisco perché nessuno si sogni di guardare una partita di calcio senza sapere qual è il fuori mio e il fuori tuo e invece pensiamo che bisogna essere degli anarcoidi insurrezionalisti quando parliamo di comunità. Angela Merkel ha detto una cosa molto bella: la libertà è qualcosa che ha a che fare con l’insieme dei cittadini, non con il singolo cittadino. È quella cosa che ci insegnavano a scuola, traducendo dal latino. Esiste la libertà dell’homo, ma anche la libertà del cives. E la libertà del cives ha a che fare con la libertà degli altri cives.
Nel libro riprendi la distinzione tra zoè, la vita essenziale, e bìos, la vita sociale. La dimensione del lockdown ci costringe alla zoè impedendoci la bìos?
Credo di no perché ormai la nostra bios si è ampliata coi dispositivi. Siamo a un punto della nostra storia in cui natura e cultura tendono a coincidere. Quindi la sfera del bios si è ampliata ai nostri dispositivi. Dunque, nel confinamento, non siamo tornati a zoè, ma siamo stati immersi in questo bios 2.0 in cui i collegamenti non sono solo fluidi sanguigni ma fluidi di dati.