«Sto in macchina e si è appena bucata la ruota. Abbiamo parcheggiato, facciamo l’intervista, e la cambiamo». Appena sento la voce di Carl Brave al telefono mi sembra di essere subito catapultato all’interno di una sua canzone. Perché la descrizione di un quotidiano così semplice, eppure così preciso e immediatamente evocabile e reale (I taxi fanno a ronde in cerca di turisti da spennare, lei allarga il buco della cinta con le forbici) lo hanno reso uno dei cantanti di maggior successo degli ultimi anni, uno di quelli con cui tutti hanno voglia di collaborare, a giudicare dalla lunga lista di artisti che hanno realizzato qualcosa assieme a lui. Adesso ha appena pubblicato un nuovo disco, Coraggio, subito entrato ai primi posti delle classifiche ed è questa l’occasione per parlare un poco.
«Parlo del quotidiano, anche una piccola cosa, come una ruota bucata, può essere una piccola cosa importante». Ho messo benzina dentro a un’Uliveto, e tu mi spii le storie dal tuo profilo fake per citare qualche altro verso. È una curiosità da voyeur delle vite altrui. «Faccio quasi cronaca della vita degli altri, da giornalista, ma senza mai giudizio, mi trattengo sempre dal giudicare».
In questo disco si oscilla di continuo tra la spensieratezza e il disorientamento per una vita che sembra sospesa e senza direzione, in attesa di qualcosa. «In questo momento ancora di più siamo tutti scioccati dalla situazione, e tutto è un po’ alla buona». Le sue canzoni raccontano sempre di aria aperta, posti o serate in cui si incontra di continuo gente, spesso nuova e diversa, e perfino quando raccontano la solitudine è la solitudine di qualcuno che prova quella condizione in mezzo a decine di altre persone (sei un tatuaggio fatto con l’henné dice di una relazione). «Adesso abbiamo imparato anche il coprifuoco. Dobbiamo vivere con queste cose nuove e vediamo come andrà. Ma per me che sono meganotturno sarà difficile. Giro per Roma di notte, quando non c’è nessuno e trovo un’altra atmosfera: mi viene l’ispirazione. Adesso non posso farlo». A meno di non uscire alle cinque del mattino. «Devo tenere».
Questo disco è stato completato a ridosso del primo lockdown. «In quel momento ho avuto una botta di creatività. Ero da solo e ho fatto molti pezzi come Le guardie e Je m’appelle, e poi ho rielaborato molte altre cose, rendendo i pezzi più attuali, adatti al momento. E pure i testi sono diventati più tristi e introspettivi. Sono venute fuori anche canzoni che affrontano un tema preciso, mentre le canzoni ispirate dallo stare in giro sono più spesso degli insiemi di fotografie. Sono più random». Le guardie è una canzone molto diversa dalle precedenti, racconta di una notte in questura e di poliziotti non propriamente gentili e professionali. Ma le guardie non entrano qua. Le sento che dicono: «Falli scannà»”. «Ho voluto sorprendere e lo farò anche nel prossimo disco. Voglio cambiare sia nel sound che nei testi che nel linguaggio. Non voglio stuccare. E anche i temi delle canzoni cambieranno ancora».
La sua più grande abilità sta nel riuscire a far entrare nelle canzoni anche ciò che per altri è insignificante o non degno di particolare attenzione, superfluo. Capita con episodi, immagini o perfino con singole parole di cui riesce a cogliere la musicalità. Questa riuscita ricerca di freschezza deve essere frutto di un’attenzione continua. «Mi appunto tutto, tutto il giorno sto ad appizzare l’orecchio. Sto attento alle parole giuste, al termine. Sento come suonano: popcorn è una parola particolare. Amare no».
Ma c’è anche un gusto per i nomi propri, per come mescolano assieme suono unico e immediatezza. Non c’è spazio solo per le Lamborghini o le griffe di moda come in certe canzoni che sono ormai già parodie, ma per oggetti consumati dall’abitudine che in un verso ritornano vividi: i fazzoletti Tempo, la Zubrowka, Varenne, Genny Savastano, Sprite. Perché inserisce tutti questi nomi? «Perché caratterizzano le situazioni. Danno un mood vero, tuo. Ti portano subito nella realtà. Sono i personaggi principali della nostra vita. E comunque non è una cosa nuova, l’hanno inventata i cantautori».
Ecco, a proposito di cantautori, mi chiedo se Carl Brave senta una frattura tra la sua generazione e ciò che c’è stato prima. Perché a molti sembra come se il panorama musicale italiano avesse vissuto una stasi di vent’anni e poi, di colpo, fosse cambiato molto velocemente. «Le generazioni diverse si straparlano tra di loro. L’indie – famose a capì, non vuol dire niente indie – riprende moltissimo dal cantautorato italiano. Siamo tutti super-legati. Anzi, spesso il pubblico non si rende conto di quante cose della musica di adesso sono riprese, non dico plagi per non esagerare, ma, insomma, sono quella roba là».
E la parola movida? «Mò me la scrivo, sì… Adesso sbagliano ovviamente a colpevolizzare quella che chiamano la movida, anche perché la movida quest’estate l’hanno provocata lasciando, per esempio, le discoteche aperte». Mentre molti musicisti hanno smesso di suonare. «È stata una bella cazzata. Non diamo la colpa alla movida, ma a chi l’ha permessa. Però per l’estate prossima spero di suonare. Ho due date: Roma e Milano, a luglio. Voglio pensare positivo. E comunque qualcosa bisognerà inventarsi, modi nuovi».
Spesso quel divertimento che chi fa le regole non riesce a spiegarsi è proprio quello che Carl racconta nelle sue canzoni. «Due paesi diversi: chi fa le regole e chi le subisce e le vive. Forse dovrebbero ripensare a quando sono stati giovani. Se mai lo sono stati». E che non sappiano comprendere il comportamento giovanile che, invece, tu riesci a spiegare, descrivere e – anzi – sei riconosciuto dal tuo pubblico proprio per la capacità con cui lo sai raccontare? «La chiave è descrivere, parlare della vita di tutti, chiunque si può rivedere nelle mie canzoni. Magari, se fai trap devi parlare di certe tematiche – soldi, quelle cose lì – e il pubblico non ci crede, perché crede siano cose di un altro paese o di un altro mondo. Io racconto le cose nostre».
Non oso fargli la domanda sul sindaco di Roma, ma sulla città sì. «Roma sta soffrendo, ma più che Roma i romani. È avvilente che tutto diventi un nome. Anche perché è più facile colpevolizzare qualcuno. Roma è una città caotica e i romani sono mezzi matti. Sarà tosta per chiunque».