Ghost Kitchens Are the Wave of the Future. But Is That a Good Thing? – Eater, 9 novembre
Se c’era un fenomeno in espansione già prima dello scoppio della pandemia e che gli ultimi mesi hanno decisamente intensificato quello era il food delivery. Stiamo parlando di una tendenza su cui gli Stati Uniti erano già molto in vantaggio, e che in Italia si è costruita un mercato considerevole nelle principali città metropolitane. Poi sono arrivati (al plurale) i lockdown, e anche le piccole insegne di provincia, perlomeno la maggior parte di loro, hanno iniziato a consegnare a domicilio e a intensificare l’asporto. Lo hanno fatto per sopravvivere, certo, ma è innegabile che in tanti abbiano comunque individuato nel delivery una possibilità di business da esplorare. Tornando agli Stati Uniti, l’articolo di Kristen Hawley racconta come si stia sviluppando con impeto il movimento delle ghost kitchens, le cucine “fantasma”: si tratta di progetti gastronomici dediti esclusivamente al delivery, alle cui spalle ci può essere un ristorante in carne e ossa o un’insegna virtuale, vale a dire una cucina senza sala. Per intenderci, è un po’ il modello delle pizzerie che fanno solo asporto e consegna a domicilio, allargato a tutta la ristorazione. Viene naturale chiedersi se queste iniziative sopravviveranno alla fine (sperata e agognata) della pandemia, se cioè questi mesi imprimeranno una svolta alle nostre abitudini, aprendo anche solo una piccola breccia e sostituendo definitivamente una parte significativa delle nostre uscite al ristorante con i pasti recapitati direttamente a casa. Ma la domanda veramente provocatoria è: se andavamo al ristorante per gioire di una cucina di qualità, con piatti difficilmente replicabili in una dimensione domestica per ragioni tecniche, logistiche e di competenze, e di un’accoglienza sapiente che ci faceva sentire come a casa, perché non dovremmo gioire di quella stessa cucina direttamente a casa? No, le cucine fantasma non sono la morte della ristorazione, e non sostituiranno il modello attuale. Ma forse dovremmo abituarci a vederle fiorire, e considerarle un nuovo modello di ristorazione flessibile e de-localizzata.
Shut Down and Bail Out the Bars. Shut Down and Bail Out the Bars – Slate, 12 novembre
Questo articolo di Jordan Weissmann racconta una diatriba che in Italia conosciamo molto bene per averne discusso a lungo, spesso con posizioni corporative povere di senso, ma va comunque letto perché dimostra una grande chiarezza espositiva. Il titolo, se non fosse chiaro, dice “chiudete i bar e salvateli”. Il riassunto è: se è appurato che i luoghi più a rischio per la diffusione del contagio sono i locali chiusi, affollati e con scarsa areazione, dovendo scegliere tra scuole, bar, ristoranti, altri luoghi aperti al pubblico (negozi, biblioteche, musei, etc.) e altri luoghi di lavoro fisico e non declinabile in smart working, sembra scontato dover fare delle scelte precise, per quanto impopolari. Insomma, se qualcosa si deve chiudere che si chiudano ristoranti e bar, prevedendo fin da subito, però, un paracadute per loro, per i dipendenti e per l’indotto, come alcuni paesi hanno fatto efficacemente e come pare stia succedendo anche qui da noi. Una precisazione rispetto alla situazione italiana: i ristori ai ristoratori sono arrivati, lasciando indietro le nuove aperture, visto che sono calcolati sul fatturato 2019. A pagare il prezzo più alto, nel nostro caso, sono la filiera, i dipendenti in cassa integrazione e gli evasori. Con gradi di solidarietà dovuta molto differenti.
Rider assunti: il 2020 è l’anno zero dei fattorini e Just Eat sta facendo la differenza – Dissapore, 11 novembre
Visto che stiamo parlando di ristoranti che diventano fluidi, impalpabili, “fantasma”, e di ristoranti che dovrebbero chiudere e casomai dedicarsi per un po’ al delivery puro, non potevamo fare a meno di affrontare la questione anche dal versante dei lavoratori, che come ha efficacemente sottolineato Anna Prandoni nel suo editoriale qui su Gastronomika qualche giorno fa, sono sempre le ultime ruote del carro. In questo articolo/intervista Federico Di Vita affronta la notizia del momento: la decisione di Just Eat, il principale attore del mondo food delivery italiano, di smarcarsi dal gruppo AssoDelivery e assumere dal 2021 i suoi rider come lavoratori dipendenti. Un passaggio storico e molto importante, che si spera Just Eat osservi con tutti i crismi necessari. Qui Di Vita intervista Yiftalem Parigi, rider sindacalista NidiL, e le sue parole sono da leggere con attenzione per comprendere appieno la situazione del settore. Quando ordiniamo cibo a casa ricordiamocele, le condizioni di lavoro in cui si trovano a operare i nostri rider.
Come rendere le consegne a domicilio di cibo più etiche per rider e ristoratori – Munchies, 10 novembre
Dopo aver affrontato i giganti del food delivery, notiamo come la questione delle consegne a domicilio sia tema attualissimo segnalando la nascita di servizi alternativi e paralleli, fondati proprio sulla necessità di garantire condizioni migliori per rider e ristoratori. Qui Giorgia Cannarella lo fa parlando di Consegne Etiche, un progetto bolognese che si basa su consegne gestite direttamente dal commerciante, senza trattenute da parte della piattaforma, e con costi caricati interamente sulle spalle del cliente riconoscendo una giusta paga al rider.
A Milano c’è Sergio, una piattaforma che punta sulla sostenibilità (per tutta la filiera) del sistema delivery. Ne scrive Rivista Studio.
A Torino i ristoranti stanno diventando (anche) gastronomie, mettendo al servizio della propria clientela l’esperienza maturata nel selezionare i migliori prodotti gastronomici. Un bel messaggio anche per la filiera, di cui scrive il Gambero Rosso.
A Tiny New Publisher Is Making Food Books to Raise Money for Restaurants – Vice, 9 novembre
Ok, i ristoranti sono in crisi, secondo alcuni vanno chiusi e salvati economicamente, ma nel frattempo il mondo delivery va avanti su tutti i fronti. In questo contesto, c’è una nuova piccola casa editrice australiana che pubblica libri gastronomici con i cui proventi aiuta proprio la ristorazione in difficoltà.