Non ci pensiamo mai. Ma il mondo potrebbe finire. Una catastrofe improvvisa, un disastro climatico. Oppure una pandemia, come prevedeva nel 2019 il giornalista e autore di podcast americano Dan Carlin nel suo “A un passo dalla fine”. Lui parte – come fa nei suoi lavori radiofonici – dallo studio della storia, di cui analizza i momenti decisivi.
Nel libro si concentra su quelli apocalittici: le distruzioni famose, i crolli delle civiltà storiche, i momenti più pericolosi che hanno messo in pericolo la sopravvivenza stessa della specie.
Oggi c’è una pandemia a livello globale: era attesa (almeno dagli esperti e dagli scienziati) ma è riuscita comunque a trovare un’umanità senza difese. E a quanto pare ha sconvolto tutti gli equilibri. Per Carlin, però, non è (ancora) il caso di preoccuparsi.
«Nonostante in tanti abbiano fatto il paragone tra l’epidemia di Covid e la febbre spagnola del 1918, la verità è che la situazione è del tutto diversa. Sono cambiate, nel giro di un secolo, troppe variabili per mettere a confronto le due realtà: immaginate, per esempio, se venissimo colpiti oggi da quella stessa influenza. Avrebbe effetti molto diversi, sarebbe meno mortale».
Non solo. Da questa epidemia «ci riprenderemo più in fretta e meglio rispetto a quelle del passato. Prima di tutto, perché non siamo stati colpiti tanto quanto avveniva nei secoli scorsi. E poi perché oggi disponiamo di un numero maggiore di strumenti per rispondere (forse il vaccino, di sicuro i farmaci, i ventilatori, la semplice comprensione delle cause, cioè sapere dell’esistenza e del comportamento di virus e batteri)».
A suo avviso «non avrà nemmeno un impatto tanto grande per quanto riguarda l’equilibrio geopolitico generale – ma qui potrei sbagliarmi».
Un effetto però lo ha avuto: ha messo in luce quanto quella odierna sia una società «avversa al rischio». In più potrà condizionare anche altri automatismi. Forse «non cambierà il modo in cui oggi guardiamo alla morte, ma credo che modificherà quello in cui vediamo il trade off sui rischi».
Cosa significa? «Faccio un esempio: negli Stati Uniti è mancata la capacità extra necessaria per affrontare il picco di che di solito una pandemia comporta. La spiegazione, in parte, sta nel fatto che, in un sistema sanitario basato sul rapporto costi-benefici, elementi surplus come i letti extra o i ventilatori polmonari erano considerati uno spreco di risorse. Se non servono, perché dobbiamo pagare per averli? In assenza di situazioni emergenziali, la noncuranza è aumentata. Ora, dopo lo scoppio di una pandemia, è possibile che queste attrezzature in più vengano interpretate in modo diverso: non più spreco, ma garanzia. Noi le pagheremo anche per i periodi in cui non sono utilizzate, ma almeno sappiamo che all’occorrenza ci sono. La pandemia ci ha ricordato che le nostre necessità possono cambiare in fretta e in modo inatteso».
Un cambiamento, ma di sicuro non la fine. «Pensare a un crollo della civiltà è senza dubbio una reazione eccessiva. Ci saranno, certo, trasformazioni importanti. Le mascherine, per esempio, potrebbero rimanere con noi anche dopo la fine della pandemia. E resteranno anche alcune strategie e tecnologie messe in campo in questo periodo».
Non solo. «Il danno economico, poi, avrà un impatto ampio e duraturo. Ma non è paragonabile a quello che ebbe la Peste Nera sulle società dei secoli scorsi. In quel caso significò la scomparsa di una enorme porzione della popolazione (oggi, per capirsi, dovrebbero esserci circa uno/due miliardi di morti per raggiungere la stessa proporzione)». La pandemia, insomma, «imporrà trasformazioni, ma è ben lontana dall’essere un evento in grado di destabilizzare una società, come facevano le pestilenze di una volta».
E per fortuna. «Eventi che meritano davvero l’etichetta da fine del mondo sono altri. Ad esempio la crisi dei missili di Cuba del 1962: cosa sarebbe successo se non fosse stata bloccata? Sarebbero morte almeno 100 milioni di persone, sarebbero state impiegate centinaia di armi nucleari, decine (se non centinaia) di città sarebbero state distrutte. La pandemia è un disastro, ma i disastri possono avere dimensioni diverse. Se mettiamo a confronto quello che sta accadendo ora con altri eventi dalla portata devastante si colgono subito le differenze. La crisi da Covid è dolorosa, ma non è una Terza Guerra Mondiale, o una Grande Depressione, o la Morte Nera».
A porre fine alla nostra civiltà, piuttosto, «potrebbero essere questioni legati alla crisi ambientale». In generale, anche ipotetiche guerre nucleari avrebbero un impatto distruttivo simile.
«Queste due sono le minacce più ovvie, quelle che potrebbero davvero mettere in crisi la rete di interconnessioni che tiene legato e funzionante il mondo moderno. La guerra nucleare lo farebbe in un pomeriggio. Le crisi ambientali, in modo più insidioso, lo farebbero con lentezza. Forse questo le rende più difficili da combattere perché si fatica di più a coglierne gli effetti e, di conseguenza, a costruire un consenso globale per contrastarle».
Il punto è che anche la fine dell’umanità è una cosa complicata. Potrebbe «capitare di sorpresa, con un asteroide che colpisce il pianeta (ed è successo più volte nella storia della Terra), con lo stesso effetto di decine di migliaia di bombe nucleari che esplodono nello stesso momento». Basterebbero poche ore. «Oppure potrebbe succedere nel tempo, attraverso l’inquinamento. Sarebbe una morte lenta».
È difficile anche darne una definizione precisa. Si avrebbe quando «l’uomo viene spazzato via», senza dubbio. «Ma anche quando, secondo il filosofo Nick Bostrom, l’uomo si ritrova catapultato nel passato, a vivere in maniera primitiva e privato di tutti gli elementi tecnologici della sua civiltà. Anche questo è un “rischio esistenziale catastrofico”». E sarebbe, a conti fatti, una fine del mondo.