Ieri come oggi, con il rialzo dei contagi le scuole sono state le prime attività a chiudere. Gli studenti che non possono frequentare gli istituti sono circa quattro milioni (quelli delle superiori, che l’ultimo Dpcm ha lasciato a casa tranne che per i laboratori, e nelle zone rosse anche quelli di seconda e terza media), con provvedimenti più restrittivi in alcune regioni, come Basilicata, Abruzzo e Puglia. Eppure, da molti questo fatto è vissuto come una sconfitta.
Solo pochi giorni fa il premier Giuseppe Conte diceva: «Le scuole non sono focolaio, la ricerca e i dati ce lo confermano». Aggiungeva Miozzo del Comitato tecnico-scientifico: «Le scuole chiuse sono la vera emergenza. Dobbiamo riaprirle». Infine Lucia Azzolina in una lettera agli studenti: «È a voi studenti che il Paese deve dare, ora, la massima priorità». In tutto questo, non si capisce chi si debba assumere la responsabilità di averle chiuse.
Il dito del governo è puntato contro le Regioni, soprattutto quelle che hanno disposto più restrizioni. «Chiusure e aperture degli Istituti scolastici, lo sapete, non sono decise dal ministero dell’Istruzione. Serve un lavoro di squadra, insieme ai responsabili degli Enti locali e ai Presidenti di Regione. Li sto chiamando uno ad uno. Dobbiamo essere tutti d’accordo sul fatto che lasciarvi a casa sarebbe una sconfitta per tutta la comunità», ha scritto la ministra. Salvo il fatto che era stato lo stesso esecutivo, con il dpcm, a consentire ai governatori di adottare misure più stringenti.
Resta comunque da comprendere sulla base di quali dati le chiusure siano state stabilite. Secondo le statistiche diffuse dalla Società italiana di pediatria, i bambini e gli adolescenti sono solo il 12% del totale dei contagiati dall’inizio della pandemia ad oggi, un ulteriore segno che «le scuole sono un luogo sicuro» (parole di Alberto Villani, pediatra e membro del Cts). Per non parlare degli innumerevoli studi che evidenziano l’enorme perdita formativa e sociale che le scuole chiuse comportano per bambini e ragazzi (con conseguenze pesanti anche sul piano psicologico), così come delle statistiche sulle gravi disparità che la didattica a distanza genera. Ancora non è chiaro cosa succederà quando il 4 dicembre scadranno le disposizioni del Dpcm.
Secondo Paolino Marotta, presidente dell’Andis, l’Associazione nazionale dei dirigenti scolastici, la chiusura «È stata una decisione sofferta, ma inevitabile». La stessa Andis ha recentemente diffuso i risultati di un sondaggio svolto tra 400 dirigenti scolastici di tutta Italia a un mese dall’inizio delle lezioni, per registrare le criticità emerse. Il quadro che ne emerge è sconfortante. Dai nuovi banchi (a fine ottobre il 44% delle scuole non li aveva ancora ricevuti, mentre per il 30% la consegna è avvenuta in ritardo), agli interventi di edilizia (a fine mese il 25% degli istituti ancora non ne aveva fatti, mentre per il 30% sono stati effettuati in ritardo), si registrano mancanze su tutta la linea.
Secondo l’Andis, inoltre, metà delle scuole italiane ancora non dispongono di una connessione di buona qualità, ci sono problemi di inadempienza (40,4%) e ritardi (35,3%) nella comunicazione dei provvedimenti di quarantena da parte delle autorità sanitarie, e mancano i docenti – un problema che le Graduatorie Provinciali per le Supplenze non hanno risolto (il 70,2% dei dirigenti indica come molto problematica la nomina dalle graduatorie di Istituto). L’elenco potrebbe continuare. Unica eccezione, si legge nel rapporto, le scuole hanno ricevuto per tempo le mascherine e il gel igienizzante da parte del Commissario Arcuri.
È chiaro che non saranno le mascherine a salvare il destino di un anno scolastico (un altro) che appare già scritto. «Malgrado la scuola non sia responsabile, la circolazione delle persone può creare problemi di diffusione. È uno dei settori principali del paese, mobilita 8 milioni di studenti, un milione circa di docenti e personale, più altri 16-17 milioni di genitori», dice Marotta. Che specifica: «La prudenza del governo è giustificata. C’era il dovere di tenere una parte degli alunni a casa per dare priorità a chi deve andare al lavoro. Non avendo compiuto interventi sui trasporti prima e non avendo fatto investimenti aggiuntivi, non si poteva fare altrimenti».
«La scuola aprendo i battenti ha affrontato un test falsato dalle condizioni generali di un’estate da liberi tutti», dice a Linkiesta Maddalena Gissi, segretario generale della Cisl Scuola. «Non è stata data la possibilità di provare a riaprire a condizioni messe in campo. Ha subito ciò che era successo nel periodo precedente». La sindacalista concorda quindi sul margine di manovra ridotto di oggi. «Non condivido la chiusura della scuola, ma a fronte di rilevanti problemi organizzativi, non dovuti alla scuola ma ad altri soggetti, si sono dovute gestire le conseguenze».
Il problema principale è stato, ancora una volta, quello dei trasporti: bisognava alleggerirli a tutti i costi. Azzolina ora chiede un piano dedicato su questo fronte, insieme agli scaglionamenti degli ingressi e l’introduzione dei test rapidi nelle scuole. Qui pare di vivere un dejà vu: non erano discorsi che avrebbero dovuto essere già stati affrontati quest’estate?
In questa confusione, le manifestazioni di studenti e comitati si stanno moltiplicando in giro per il Paese. «Ancora non si è compreso quali siano le variabili che incidono sulla diffusione del contagio. La scuola è stata riaperta con protocolli lunghissimi che però almeno in parte erano facoltativi. Ma se la scuola prendesse tutte le misure elencate – metro di distanziamento, mascherine, le finestre aperte 15 minuti ogni ora, la rimozione delle macchinette dai corridoi, l’intervallo in classe, il thermo scanner all’ingresso – non si inciderebbe sul contenimento del virus?», dice a Linkiesta Luca Biscuola, studente al quinto anno dello scientifico Alessandro Volta, a Milano.
Biscuola è stato fra i primi a scendere in piazza contro la didattica a distanza e per la riapertura delle scuole, sedendosi, pc e tablet al seguito, sotto a Palazzo Lombardia insieme a decine di altri studenti da tutta la regione per seguire le lezioni da lì. Il freddo non li spaventa: ieri c’è stata la quarta protesta in quattro settimane, cui ha partecipato anche il preside Domenico Squillace, solidale con i ragazzi come la maggior parte dei docenti.
«Al governo chiediamo di prendere decisioni su basi scientifiche e non di pancia», dice Biscuola. «Per mesi siamo tornati a vivere normalmente, ora non si può dire che se è successo il finimondo è perché si sono riaperte le scuole. Per una volta, riapriamole per prime e poi vediamo come va la curva».
Difficile però che succeda il 4 dicembre. «Io credo che per quella data il governo si troverà ancora in grossa difficoltà. La curva sembra rallentata ma il numero di contagi e morti è spaventoso. Se non dovesse volgere al bello la prudenza va mantenuta», dice Marotta. «Prima di correre alle riaperture credo sia necessario fare delle valutazioni», aggiunge Gissi. Al netto dei contagi, però, gli esperti dichiarano che bisogna tenere ben chiaro l’interesse a riprendere la didattica in presenza. «È evidente che non abbiamo ancora imparato la lezione. Se continuiamo a massacrare scuola e sanità, anche con il vaccino non torneremo alla normalità tanto facilmente. Servono decisioni radicali e investimenti straordinari», dice la segretaria generale.
«Ci dovrà essere per questa generazione di ragazzi in questo anno impossibile un ristoro in termini di iniziative, prodotti culturali, attività scolastiche di recupero e di rinforzi per quella mancata conoscenza che questa forma di didattica a distanza ha determinato», conclude Marotta, auspicando una svolta positiva per il futuro. Una sorta di risarcimento, insomma, per le nuove generazioni. Guardando oltre l’emergenza. «Molti presidi suggeriscono un’alternanza di attività fra periodi più o meno lunghi di didattica in presenza e a distanza. Se siamo convinti che i ragazzi hanno perso, soprattutto in termini di socialità, momenti di questo tipo si dovranno sperimentare. Perché un ragazzo non è un vaso da riempire».