Mancanza di trasparenzaNon abbiamo dati a sufficienza sui contagi nelle scuole e prendiamo decisioni al buio

Se i casi di trasmissione del virus all’interno delle classi sembrano molto limitati, le positività registrate da quando oltre 8 milioni di persone sono tornate in aula sono aumentate parecchio. Manca ancora il nesso di causa-effetto che possa legittimare l’aumento della didattica a distanza: le statistiche incomplete fornite dalle istituzioni non permettono valutazioni approfondite

Cecilia Fabiano/LaPresse

La scuola è l’istituzione che viene sempre messa in cima alla lista di priorità, ma poi alla prova dei fatti sembra piuttosto facile rinunciarvi. Nell’ultimo discorso al Parlamento il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato l’estensione della didattica a distanza per gli studenti della scuola secondaria superiore e per le ultime due classi di scuola secondaria di primo grado, almeno nelle zone rosse. Il rischio è che le scuole non tornino a lavorare a pieno regime con le lezioni in presenza fino al termine dell’anno scolastico.

I dati che aiuterebbero a capire e a legittimare certe decisioni sono ancora piuttosto scarsi. Da metà ottobre il ministero dell’Istruzione ha smesso di pubblicare sui suoi canali ufficiali i numeri sui contagi negli istituti: la settimana scorsa il ministero comunicava «di aver condiviso i dati del monitoraggio con l’Istituto superiore di Sanità», senza renderli consultabili per tutti. Ma anche i dati a disposizione precedentemente non indicavano alcuna differenza per tipo di istituto, per area geografica, non facevano differenza tra elementari, medie, superiori.

Nell’ultimo comunicato ministeriale gli studenti contagiati erano pari allo 0,08 per cento del totale dei positivi su base nazionale (5.793 casi totali), mentre per il personale docente la percentuale era dello 0,13 per cento (1.020 casi). Come aveva detto la stessa ministra Lucia Azzolina, «dentro le scuole il rischio di trasmissione del virus continua ad essere molto molto basso». Ma si tratta dati parziali, non sufficienti per un’analisi completa: non c’è il numero dei test fatti, ad esempio.

Anzi, alcuni numeri potrebbero smentire quanto detto da Azzolina. Il monitoraggio dell’Istituto superiore di Sanità indica un abbassamento dell’età mediana dei positivi: 49 anni, nel computo totale da inizio pandemia, che scende a 43 anni nel calcolo degli ultimi 30 giorni. Sempre negli ultimi 30 giorni, poi, i 15,4 per cento dei casi positivi rientra nella fascia d’età 0-18 anni.

Fonte: ISS www.epicentro.iss.it

Da quando hanno riaperto le scuole – in alcune zone a metà settembre, in altre il 24 – si è rimessa in moto una macchina che tra studenti, docenti e personale non docente conta 8,2 milioni di persone, che si mobilitano, si incontrano all’interno e all’esterno degli istituti, con un potenziale effetto moltiplicatore sui contagi.

La seconda ondata ha iniziato a crescere a ritmi maggiori da inizio ottobre, cioè dopo un tempo sufficiente a rispettare i tempi di incubazione del virus. Nella settimana dal 4 all’11 ottobre il ritmo di crescita degli infetti tra gli studenti cresce del 265 per cento in più rispetto al resto della popolazione, quello del personale docente cresce al doppio della velocità. Quindi un aumento dei positivi nelle fasce d’età più giovani, con un nuovo picco di contagi iniziato poco dopo l’inizio della scuola.

Anche l’Associazione nazionale dirigenti scolastici (Andis) parlando con Linkiesta dice che «da quanto si rileva sui territori è indubbio l’aumento progressivo delle positività e delle relative quarantene di intere classi laddove continuino le lezioni in presenza. Tuttavia noi abbiamo sempre sostenuto la didattica in presenza, in particolare per gli alunni più piccoli. E nulla può escludere che i contagi a scuola arrivino dall’esterno, dato che le misure organizzative dentro le scuole sono molto rispettose dei protocolli di sicurezza».

L’inizio della scuola sembra dunque coincidere con un aumento dei contagi, ma non c’è ancora un’evidenza scientifica che premette di parlare di rapporto causa-effetto tra la didattica in presenza e i contagi.

Lo spiega a Linkiesta il ricercatore dell’Università di Cambridge Salvatore Lattanzio, che ha svolto un’analisi sulle regioni italiane studiando i numeri delle positività prima e dopo l’apertura delle scuole: «La correlazione tra la riapertura e l’aumento dei contagi non fotografa un nesso causale. È possibile che anche se l’edificio scolastico in sé non rappresenta un cluster di contagi, siano gli spostamenti collegati al raggiungimento delle scuole e altre attività correlate a determinare una maggiore velocità di circolazione del virus. Soprattutto nelle grandi città».

Un esempio statistico di quel che dice Lattanzio arriva da Napoli, con i dati dell’Asl Napoli 1 che mostrano la crescita dei contagi tra il 15 e il 20 ottobre (cinque giorni dopo la chiusura voluta dal governatore De Luca: un aumento del 93 per cento tra gli studenti, addirittura del 217 per cento tra i docenti.

«È probabile, però, che con le scuole chiuse – spiega Lattanzio – ci fossero meno test per i ragazzi in età scolastica, a maggior ragione perché si tratta di ragazzi che spesso non presentano sintomi. Possiamo immaginare che dopo una positività in una scuola moltissimi studenti di quella scuola facciano un test di qualche tipo, magari per uno scrupolo dei genitori».

In tutto il mondo gli studi scientifici fotografano effetti diversi legati alla chiusura degli istituti e al conseguente passaggio alla didattica in presenza. Uno studio pubblicato su Lancet negli ultimi giorni, ad esempio, ha rivelato che «la chiusura delle scuole potrebbe ridurre il picco di incidenza del 40-60% e ritardare l’epidemia», mentre un rapporto pubblicato dal Comitato scientifico per le emergenze del Regno Unito associa la chiusura delle scuole a una riduzione dell’indice Rt di circa 0,2-0,5 punti, mentre quella delle sole scuole di secondo grado porterebbe a una diminuzione dell’Rt di 0,35 punti.

Gli esperti però sembrano ancora piuttosto divisi sul tema: uno studio condotto da quattro medici italiani – Danilo Buonsenso, Cristina De Rose, Rossana Moroni e Piero Valentini – è più prudente: «Ad oggi, non ci sono prove disponibili per comprendere l’impatto dell’apertura delle scuole durante la seconda ondata. I primi risultati suggerirebbero che, quando vengono rispettate adeguate misure preventive, la trasmissione interna alla classe è bassa. Ma una migliore conoscenza della diffusione della SARS-CoV-2 tra gli studenti migliorerebbe l’organizzazione scolastica durante la pandemia, consentendo di prendere decisioni che bilanciano meglio benefici e rischi per le famiglie e i bambini».

Prendere una decisione su un tema così delicato, infatti, non può essere semplice, ma quanto meno si può obiettare che l’inizio della scuola era un evento previsto, ancor più della seconda ondata: sarebbe stato lecito aspettarsi una preparazione maggiore.

«Si potevano prevedere – dice Lattanzio – misure di didattica ibride tra presenza e distanza, e altre contromisure si potevano immaginare prima. Tutti gli studi ci dicono che ci sono conseguenze gravissime sul futuro dei ragazzi che perdono molti giorni di scuola. Effetti che si vedono a distanza di anni. E poi è un problema anche per le famiglie, nel breve periodo. Per questo sarebbe stato fondamentale prevedere anche solo due ore al giorno di lezioni in presenza, con professori e compagni: sempre meglio che stare tutta la settimana a casa».

Chiudere la scuola è la misura più semplice, diretta, immediata. «Anche quella che genera meno critiche forti, perché i costi non sono immediatamente visibili a differenza dei vari esercizi commerciali. Qui il prezzo si pagherà tra qualche anno», suggerisce Lattanzio.

Un punto su cui concordano tutti gli esperti riguarda gli effetti negativi della chiusura delle scuole sui bambini e ragazzi: conseguenze che vanno dalla riduzione delle capacità cognitive di apprendimento alle probabilità di abbandono scolastico, dal tasso di iscrizione all’università ai risultati sul lavoro negli anni successivi.

È per questo che alcuni governi, come quelli di Francia e Germania, sembrano aver scelto forme di lockdown più leggere che prevedono il prosieguo delle lezioni in presenza. È anche un messaggio da lanciare ai cittadini: la scuola è l’ultima a chiudere, si passa alla didattica a distanza solo come extrema ratio.

Come spiega ancora Salvatore Lattanzio «Francia e Germania fanno capire il valore che vogliono dare alla scuola all’istruzione. Siamo tra quelli che hanno tenuto le scuole chiuse più a lungo, almeno tra i Paesi occidentali. Già partiamo da una situazione di handicap, e i nostri vicini sono un buon esempio dell’importanza che dovrebbe avere la scuola nelle priorità di un governo».

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