She-cession economicaSaranno le donne a pagare il prezzo più alto della crisi

Questa emergenza amplierà il disequilibrio di genere nel mercato. Il NextGenerationEu privilegia settori in cui lavorano in grande maggioranza i maschi (green, digitale, costruzioni), escludendo gli ambiti a prevalente occupazione femminile: cura, servizi, commercio, turismo

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Quella che stiamo vivendo è la crisi economico-sociale più grave dal secondo dopoguerra, ormai lo sappiamo tutti, si legge ovunque, quello di cui forse non si parla abbastanza però è come questa crisi sia diversa rispetto a quelle passate. Molti economisti ne stanno studiando da mesi la natura, analizzando numeri e fenomeni. Da tutte le analisi viene fuori il carattere particolare della crisi economica da Covid19: un filo rosso collega il blocco totale delle attività alla perdita dei posti di lavoro, con effetti nettamente differenti su uomini e donne. Sono queste ultime a pagarne il prezzo più caro, sia perché impegnate nei settori che hanno patito di più il blocco, sia per l’improvvisa assenza dei servizi di cura a supporto. Il momento che stiamo vivendo, dunque, oltre ad essere una crisi economica e sociale è anche una crisi di genere e a differenza di recessioni passate, questa crisi sta innestando effetti di propagazione molto più veloci verso settori collegati favorendone la recessione. Sono considerazioni di carattere macroeconomico che stanno facendo in tanti ma che in Europa ancora stentano ad essere prese in considerazione.

A maggio l’Unione europea ha predisposto le linee guida per i consistenti finanziamenti destinati ai Paesi membri per contrastare la crisi e facilitare la ripresa: il pacchetto è stato denominato NextGenerationEu, quello che in Italia diventa Recovery Fund. L’europarlamentare tedesca Alexandra Geese, dei Verdi, ha fatto analizzare il piano predisposto da due economiste, di cui una è l’italiana Azzurra Rinaldi. L’analisi condotta dimostra come gli ambiti di spesa previsti dal NextGenerationEu privilegiano settori a prevalente occupazione maschile e in crescita (green, digitale, costruzioni), lasciando fuori quei settori su cui la crisi pandemica si è abbattuta con più forza (cura, servizi, commercio, turismo), settori a prevalente occupazione femminile.

A quello che stiamo vivendo è stato dato un nome a livello macroeconomico: she-cession.  Prima del 2020 tutte le recessioni erano considerate man-cession (come la crisi del 2008 che colpì soprattutto le costruzioni, la finanza e l’edilizia, settori appunto prevalentemente maschili) oppure recessioni che deprimevano l’occupazione maschile e femminile allo stesso modo. Prima d’ora nessuna recessione aveva mai colpito con questa forza più un genere rispetto all’altro (Yalnizyan, 2020).

Queste analisi ci impongono di riconsiderare tutta la questione crisi (e per riflesso gli investimenti ammessi dal NextGenerationEu) attraverso un’ottica totalmente differente da quella adottata fino a oggi: in questo momento la divisione della borsa premia digitale e green in maniera preponderante, attribuendoli un 60% dei fondi, mentre destina a tutto il resto solo il 40%. Ecco da dove nasce l’allarme di #halfofit, quello di cui stiamo parlando non è solo una questione di diritti, ci sono aspetti economici che devono essere considerati: se non si fanno investimenti mirati a sanare i divari di genere la crisi si accelera, non la si contrasta.

L’Italia è il paese messo peggio di tutti da questo punto di vista, gli indicatori sulla condizione ma soprattutto sul lavoro femminile sono preoccupanti da sempre, nessuno però se ne occupa più di tanto nel nostro Paese, relegando la questione femminile nel recinto delle recriminazioni di genere, senza valutarne l’impatto economico.

In Italia il tasso di occupazione femminile, già il più basso in Europa prima della crisi, è sceso dal 51% circa nel 2019 al 48,4% nel 2020, con punte più basse nell’Italia meridionale, dove 7 donne su 10 non lavorano (dati pre-pandemia), e in questi mesi il crollo del lavoro è stato soprattutto femminile. L’Unione stimava nel 2019 che la sottoccupazione delle donne europee costa 370 miliardi di euro l’anno, Bloomberg reputa che l’accesso al lavoro di tutte le disoccupate permetterebbe un aumento del Pil italiano fino a 88 miliardi, mentre il Fondo monetario internazionale ci dice che se ci fossero più donne al vertice delle organizzazioni l’economia globale assisterebbe a un aumento del 35%.

Ebbene, in Italia, secondo i dati Istat, nel 2020 ci sono state 470mila occupate in meno rispetto al secondo trimestre del 2019 (più del 60% dei posti di lavoro persi in totale), di queste 323mila in meno tra quelle con contratto a tempo determinato.

Se osserviamo il fenomeno nel breve periodo post-pandemia osserviamo inoltre come, nell’agosto 2020, l’offerta di lavoro femminile è stata del 20% inferiore ai livelli pre-recessione del febbraio 2020, mentre l’offerta di lavoro maschile è risultata inferiore solo del 9% (Bick e Blandin, 2020). E questa è l’altra caratteristica preoccupante, si tratta di una crisi a guarigione più lenta: nel post lockdown l’economia iniziava a ripartire gradualmente, ma sul lavoro delle donne stavamo assistendo a un reimpiego più lento rispetto a quello degli uomini, cioè la parziale ripresa dell’occupazione degli ultimi mesi ha giovato più agli uomini che alle donne (Alon et Al., 2020). Shecession, appunto.

Per riequilibrare il divario servirebbero azioni mirate ad agevolare l’occupazione femminile, non solo per una questione di genere, ma per una ripresa effettiva del sistema economico complessivo.

Le linee guida sul Ngeu prevedono, come abbiamo scritto sopra, che il 60% circa degli investimenti sia destinato al digitale e al green e il restante 40% per tutto il resto. Dentro questo resto dovrebbero rientrare in modo residuale anche gli investimenti nel sociale e per le donne. Ma non basta: servirebbe è un cambio di paradigma complessivo.

Per affrontare la crisi generale, e con essa tanti irrisolti del nostro sistema – dai divari di genere, alla denatalità, ai divari nord sud – servirebbe una rivoluzione sistemica, un approccio economico in cui il tema del lavoro femminile sia centrale per sostenere il rilancio del sistema economico nel suo complesso. Una delle condizioni per fare ciò sarebbe la ridefinizione efficace ed efficiente del welfare della cura – scuola, sanità, assistenza – nel nostro Paese.

Sappiamo che il 2% di Pil investito in cura produce più reddito rispetto alla stessa quota investita in costruzioni. Serve un piano straordinario per le infrastrutture sociali, a supporto della persona in primis – infanzia, anziani, non autosufficienti – ma anche come incentivazione del lavoro delle donne.

Non è un caso che nei territori dove c’è la presenza di asili nido ci sia contemporaneamente una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro. Eppure, i nidi non ci sono e non si fanno, se non vengono sollecitati da amministratori locali sensibili. Ma l’educazione della prima infanzia non può dipendere dalla sollecitudine di qualche amministratore.

Una maggiore diffusione dei servizi per la prima infanzia – nidi e tempo pieno – permetterebbe alle donne di lavorare di più. La famiglia in cui entrambi i partner lavorano agisce come volano di attività economiche e di posti di lavoro, lo stipendio della donna arricchisce il benessere familiare e se le donne che lavorano hanno accesso ai servizi fanno più figli, e, contemporaneamente, aumentano la richiesta e l’occupazione di questi settori. Incentivare il lavoro femminile significa spingere il motore della crescita economica. Senza infrastrutture sociali le donne continueranno a dover scegliere se lavorare od occuparsi dei figli, oppure, scelta ancora più importante in un momento di crisi demografica, come quello che stiamo vivendo, se fare figli o meno.

Per contrastare subito la shecession, che l’economista Giovanna Badalassi definisce «crisi della cura», servono azioni di breve, di medio e di lungo periodo. Non interventi puntuali o bonus, a cui tutti i governi fanno ricorso per capitalizzare subito in termini di consenso, ma politiche integrate e durevoli nei settori della cura. Aiuterebbe puntare sulle competenze delle donne nella definizione delle politiche nazionali, impegnarsi a fissare obiettivi collettivi, includendo le donne, che da anni si occupano di questi temi, negli organi decisionali.

Da dove iniziare? Da una valutazione economica ex ante dell’impatto di genere per ogni politica intrapresa, solo in questo modo si potranno identificare quali sono le azioni che favoriscono realmente la crescita. Il nostro Paese deve predisporre subito un piano nazionale per l’infanzia, con una strategia nel breve termine, per resistere alla pandemia, e riforme di più ampio respiro per migliorare sia la diffusione che l’accessibilità economica alle strutture.

Serve sostegno all’imprenditorialità femminile, formazione e riqualificazione nelle nuove competenze, supporto fiscale per favorire l’ingresso delle donne al mercato del lavoro, perché un ecosistema imprenditoriale inclusivo e favorevole alle donne è necessario a tutto il sistema produttivo nazionale.

Quello che tentiamo di dire, con la campagna del Giusto Mezzo, a cui chi scrive partecipa attivamente, è che l’Italia ha bisogno del potenziale produttivo di tutte e di tutti non solo per una questione di diritti ma proprio per aprire un paracadute per i prossimi anni, perché le previsioni non sono rosee. Il Ngeu è un’opportunità straordinaria per ripensare il nostro modello di società e di economia nel post pandemia, e va colta.

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