Kamala e i trumpiani pronti alla morte
Magari non succede niente. Magari non scoppia una guerra civile. Magari hanno ragione i giornalisti che raccontano come la Casa Bianca – ora che Trump non c’è, vien da pensare – sia pronta a un passaggio normale di poteri. Che il capo di gabinetto Mark Meadows sta già trattando col team Biden. Però, fuori dalla Casa Bianca, c’è un presidente scatenato per comizi, ormai a metà tra un caudillo centroamericano e un comico anni Cinquanta. Che non fa ridere, specie quando dice che le elezioni sono truccate. O quando smentisce di voler annunciare che ha vinto la sera di martedì, ai primi risultati positivi o quasi, però dice che già martedì «partiremo con gli avvocati». Che non accetterà il passaggio pacifico dei poteri perché se perde vuol dire che le elezioni sono state truccate, appunto.
È una specie di Comma 22 di Donald Trump, che agita alcuni milioni di suoi elettori. Quelli pronti a gridare al complotto anche se Joe Biden vincesse con dieci punti di vantaggio. Pronti a morire per lui, anche, secondo uno studio della Stanford University: 18 suoi comizi hanno prodotto 30mila infezioni, e 700 vittime.
E in questi giorni, ogni giorno, pronti a mettersi fuori dai seggi a innervosire gli elettori. O a salire in macchina, anzi in Suv che paiono carri armati, e andare in carovana a speronare il pullman di Kamala Harris.
È successo in Texas, sull’autostrada tra San Antonio e Austin. Un convoglio di suvvoni con dentro trumpiani apertamente armati ha inseguito e circondato il pullman, urtato le auto dei volontari della campagna, bloccato il traffico per tre quarti d’ora. Harris ha dovuto cancellare dei comizi per motivi di sicurezza. Ieri Trump ha twittato il video dell’assalto (con sottofondo musicale tipo western o Convoy-trincea d’asfalto) commentando in stampatello “I LOVE TEXAS!”, e poi ha elogiato i partecipanti in quanto patrioti. Il 28 ottobre Don junior, il suo primogenito problematico, aveva pubblicato un altro video in cui invitava i fan a dare a Kamala Harris un «big Trump Texas welcome». Magari non succede niente. È più probabile che succeda qualcosa.
Trump in fuga, forse
Secondo la nipote Mary Trump, autrice di Too Much and Never Enough, bestseller sulla formazione dello zio, Trump sta pensando di lasciare gli Stati Uniti se perde le elezioni. «Dirà che l’America non lo merita e che va a fare qualcosa di importante, come costruire la Trump Tower a Mosca», ha sostenuto al New Yorker. Trump ha una dozzina di indagini a suo carico e cause civili, più centinaia di milioni di dollari di debiti, più chissà. Timothy Snyder, studioso di autoritarismi a Yale, prevede un trasferimento in un Paese senza trattati di estradizione con gli Stati Uniti. «Dicono che avrà uno show di Fox News. Io penso ce l’avrà su RT», che è la rete russa nel mondo
Trump fa una festa
Quando si parla di Biden, in questi giorni, la questione più eccitante è «Rust Belt o Sun Belt»? Cioè: meglio dedicare le ultime ore agli stati della cintura della ruggine, il Michigan-Wisconsin-Pennsylvania che fino a Trump era il «muro blu» dei democratici, o alla cintura del sole del Sud che diventa più progressista? (Biden è più Rust Bell, Kamala Harris e Barack Obama vanno nella Sun Belt). Volendo esagerare, si può arrivare alle esternazioni di Pete Buttigieg. L’ex candidato alle primarie, mite ed efficace surrogato di Biden, spiega che la Biden Coalition è un po’ diversa da quella di Obama, che era più giovane, multietnica e persino queer: invece quella di Sleepy Joe è fatta di «progressisti, moderati, indipendenti e un po’ di repubblicani», che è anche un modo di dire anziani.
Quando si parla di Trump, può venir fuori qualunque cosa. Ora vuole spostare la veglia elettorale della sua campagna, martedì sera, dal Trump International Hotel alla Casa Bianca. E stipare 400 persone nella East Room, quando a Washington causa pandemia sono permessi raduni fino a 50 persone (Trump ha usato la Casa Bianca per tutta la campagna elettorale anche se non si dovrebbe; e lì servizi e rinfreschi non sono a carico suo, o della sua campagna che non ha più soldi).
Suore, guarde giurate e spray urticanti
La guerra a bassa intensità – ma neanche tanto – pro e contro la soppressione del voto continua negli Stati in bilico. In Minnesota, l’attorney general Keith Ellison ha bloccato una società di sorveglianza che stava reclutando guardie armate da mandare a «proteggere i seggi» e «fare in modo che gli antifa non li distruggano» (Ellison, ex deputato democratico, ha detto che secondo lui Trump potrebbe ancora vincere lo Stato, per questo l’intimidazione ha senso). In Ohio, la League of Women Voters ha reclutato decine di “pacificatrici”, assistenti sociali, professionisti della mediazione e religiosi: vanno davanti ai seggi dove sostano trumpiani armati, e sostano anche loro. «Così controllano la situazione e trasmettono un senso di calma che conforta gli elettori», ha spiegato alla Nbc la direttrice della lega. Ha spiegato poi che, se i preti sono in clergyman e le suore arrivano con l’abito tradizionale, c’è un effetto di moral suasion (l’Ohio era lo Stato in bilico per eccellenza, poi ha stravinto Trump, ora non si sa).
Più a sud, l’abito religioso non paga, specie su un nero. Sabato a Graham, North Carolina, la polizia ha attaccato con spray urticante un corteo di Souls to the Polls, anime ai seggi, guidato da un pastore, senza un motivo apparente. Hanno spruzzato sui bambini, e su una signora in sedia a rotelle che è stata ricoverata. Dopo un po’, visto che il corteo non si scioglieva, hanno cominciato a fare arresti (in North Carolina Biden sarebbe avanti, e non era previsto).
Florida Men, un classico elettorale a Miami
Circa ottomila schede postali sono state trovate abbandonate in un magazzino delle Poste nella Dade County (secondo gli habitué della politica in South Florida c’è una sola differenza tra l’ufficio postale di Dade e gli altri nello Stato, ed è che gli altri sono stati scoperti). Il procuratore distrettuale di Miami ha ordinato controlli in tutti i centri di smistamento, e il trasporto di tutte le schede all’ufficio elettorale (fino a ieri in Florida avevano votato 3 milioni e 400 mila elettori registrati come democratici e 3 milioni e 300 mila repubblicani, tra i quali forse degli anziani che non votano più per Trump; e lo Stato per l’ennesima volta sembra «too close to call», troppo incerto per proclamare, o anticipare, un vincitore).
Florida Men, il ritorno di Obama
Torna dopo pochi giorni, arriva oggi per due comizi, dovrebbe motivare i giovani uomini neri e latinx del South Florida; che, se votano, votano tardi e dopo che gli è lo si è ricordato fino alla lite, come fanno i maschi basici di ogni forma e colore. Se non ci riuscirà con argomentazioni politiche – ma Obama quasi mai parla di politica – potrebbe convincere con la ripresa del suo spettacolare canestro sabato in Michigan. Obama attraversava la palestra, gli hanno passato la palla, ha lanciato ed è andato via soddisfatto. La scena è diventata virale globale. Dopo la Florida, Obama andrà in Georgia, Trump c’è andato ieri, e non era previsto, ma lì gli afroamericani votano in massa e potrebbe perdere (se perderà, buona parte del merito dovrebbe andare a Stacey Abrams; la candidata governatore sconfitta con qualche irregolarità non ha voluto candidarsi al Senato e ha lavorato contro la soppressione del voto e per registrare e motivare; e già si gode un momento di giustizia poetica, il governatore repubblicano Brian Kemp non può votare perché è in quarantena).