C’era una volta un presidente americano che l’intellighenzia progressista considerava reazionario, guerrafondaio, ignorante, l’espressione del lato più retrogrado dell’America, il punto più basso che la democrazia americana avesse toccato, colui che deludeva l’amore che il mondo aveva per gli Stati Uniti mentre regalava occasioni da gol a chi li aveva sempre detestati. Si chiamava George W. Bush, e aveva teorizzato in un suo discorso sullo stato dell’Unione l’esistenza dell’Asse del Male, un conglomerato di nazioni che minacciavano la pace nel mondo mentre opprimevano i propri cittadini.
La lista originaria dei componenti dell’Asse del Male – Iran, Iraq e Corea del Nord – negli anni venne espansa a Cuba, Siria, Libia, Myanmar, Belarus, Zimbabwe e Venezuela, gli «avamposti della tirannia» come li aveva chiamati Condoleezza Rice, fermandosi a un passo dall’includere nell’elenco anche Russia e Cina, i grandi sponsor delle dittature che le tutelano con il diritto di veto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Dibattiti e vicende di quasi venti anni fa, quando nessuno avrebbe potuto immaginarsi l’arrivo del giorno in cui perfino i liberal più intransigenti avrebbero firmato e votato per riportare George W. alla Casa Bianca, il quale più che un “cowboy ignorante” appare come uno statista ponderato e lungimirante rispetto all’attuale inquilino.
Ma soprattutto nessuno avrebbe potuto immaginarsi un mondo dove molti cattivi, vecchi e nuovi, avrebbero preferito votare Donald Trump. Sicuramente, Bashar Assad, che con qualunque altro leader americano avrebbe avuto molti più problemi. E certamente Aleksandr Lukashenko, finora sostanzialmente ignorato dalla diplomazia americana: del resto, perché un presidente che già fa capire che potrebbe non riconoscere il risultato elettorale in caso di sua sconfitta dovrebbe criticare o tanto più sanzionare un collega che l’ha già fatto, rimanendo al governo illegalmente?
E solo con Trump diventa possibile un’America che si limita a invitare a indagare il «terribile» avvelenamento di Alexey Navalny, lasciando la Germania di Angela Merkel e la Francia di Emanuel Macron a guidare in prima linea (per fortuna) quella che diventerà probabilmente la battaglia principale contro il regime di Vladimir Putin. Il padrone del Cremlino è rimasto molto amareggiato dalla mancata alleanza con Trump, che Mosca aveva considerato talmente a portata di mano da aver salutato l’elezione di The Donald nel 2016 stappando champagne alle feste dei deputati della Duma.
Ma nonostante l’abbraccio mai avvenuto – molti analisti russi continuano a imputare di questo amore non consumato il “deep state” di Washington, insistendo a leggere nel cuore di Trump un sentimento di affinità con Putin – e le lamentele sul «punto più basso nella storia delle relazioni bilaterali», il presidente russo deve parecchio a quello americano.
Senza nemmeno menzionare gli ostacoli all’indagine sul Russiagate, in cui ovviamente Trump era più interessato a proteggere sé stesso, il mondo negli ultimi quattro anni è diventato per tanti versi più comodo per l’autoritarismo russo. Trump ha permesso a Putin di tornare a puntare le sue testate nucleari sull’Europa, rompendo il trattato Inf sul bando dei missili a corto e medio raggio: è vero che ha dato la colpa ai russi, che non avevano rispettato i patti, ma il risultato è stato quello di concedere a Mosca la possibilità di fare quello che il trattato le vietava di fare.
E ora, in attesa che l’Europa torni a essere il teatro dei war games russi, il presidente americano si prepara a fare il bis con il trattato Start, l’ultimo documento rimasto a imbrigliare un minimo la corsa agli armamenti, cui il suo odio per ogni patto vincolante, soprattutto se multilaterale, ha ridato fiato. Dal febbraio 2021, in quanto ad accordi che dovrebbero impedire lo scoppio di una guerra nucleare, torneremo a una situazione da 1984, quando l’incubo di un Day After atomico era molto più vivo di quello ambientale.
Infine, Trump ha ridotto al minimo l’aiuto all’Ucraina, trattando un Paese cruciale per il futuro della democrazia nell’Est Europa – o, al contrario, per il sogno postimperiale di Putin – come una nazione del Terzo Mondo da ricattare con gli aiuti militari in cambio di un’indagine (non importa quanto fondata) contro il figlio del suo avversario Joe Biden. E questa è, forse, la sua colpa più grave. Perché un accordo strategico sul disarmo verrà preparato, discusso e firmato appena alla Casa Bianca tornerà un presidente normale.
Sarà più faticoso e problematico, ma si farà, e i russi saranno i primi a essere d’accordo: oltre alla non indifferente questione di mantenere gli arsenali americani e russi in una situazione di parità che altrimenti Mosca si sognerebbe, Putin ci tiene moltissimo a firmare accordi che facciano pensare, almeno per un istante, che Usa e Russia sono ancora le due potenze che si giocano le sorti del globo. Restaurare la fiducia nella democrazia come sistema nel quale alla fine prevale la ragione sarà molto più difficile. Perché il danno più pesante arrecato da Trump, e dal trumpismo, non è l’aver commesso atti discutibili (come qualunque presidente), ma il modo in cui li ha commessi.
Arrogante, irresponsabile, bugiardo, egoista, aggressivo, narcisista, infantile, irrispettoso della legge e indifferente alle buone maniere, insensibile al conflitto d’interessi e impudente nel difenderli: la lista dei difetti del presidente americano potrebbe continuare a lungo, ma quasi tutte le sue qualità negative non sono considerate tali dagli autocrati non occidentali. Anzi, nel mondo là fuori, oltre l’Occidente, spesso vengono viste come virtù.
Nel mondo là fuori, quello delle nazioni svariatamente non anti democratiche, l’America era sempre stata vista come modello, e come ultima risorsa, il deus ex machina che sarebbe intervenuto se le cose si fossero messe davvero male, che non avrebbe permesso di superare certi limiti. Non si potevano ammazzare dissidenti, deportare popoli e fucilare piazze, e chi lo faceva sapeva di andare comunque incontro a una marea di guai, mentre le vittime sapevano che nel peggiore dei casi si poteva chiedere protezione e asilo agli Stati Uniti.
Propagande di mezzo mondo si sono affannate a dipingere l’Occidente come un film dell’orrore, ma a nessun regime orwelliano sarebbe mai venuto in mente di raccontare l’America come qualcosa di uguale a loro. Si poteva amare o odiare la democrazia, l’America e l’Occidente, ma nessuno – i dittatori per primi – aveva pensato di equipararsi a quello che era il nemico per definizione, o al contrario il modello da imitare, l’utopia della libertà e dei diritti dove gli orrori del mondo là fuori sarebbero stati impossibili.
George W. Bush era infatti stato criticato soprattutto per essere stato troppo invadente, in senso tecnico di voler invadere, e quello che gli era stato contestato era l’ingenua visione quasi messianica della diffusione globale della libertà. Con Trump, autocrati, satrapi e folli di tutto il mondo hanno trovato la loro giustificazione e il loro modello. Gli Stati Uniti non sono più un nemico. Sono quelli come noialtri, che fanno le stesse cose, ma che sono soltanto troppo ipocriti per ammetterlo.
Putin l’ha sempre detto, sono tutti uguali – corrotti, bugiardi, prepotenti – se non fosse per quella operazione d’immagine che ha permesso agli occidentali di spacciarsi per buoni e giusti. Anzi, per certi versi sono perfino peggio dei dittatori, che almeno non fingono di essere migliori di quelli che appaiono. Finalmente, è arrivato Trump a smontare il mito, a mostrare il vero volto della tanto vantata democrazia americana. È questo il mondo che sognate? Guardate che è uguale al nostro, sono solo più ricchi e arroganti, ma dateci tempo e diventeremo come loro.
Parlare di libertà, diritti, della rule of law e dello stato di diritto non è mai stato difficile come nel momento in cui il il presidente americano ha fatto capire che si sta preparando ad affrontare un eventuale verdetto negativo delle urne come un Lukashenko qualunque. Vantando il primato dell’America First, Trump ha distrutto la sua forza principale, quella che nel mondo là fuori rendeva gli Stati Uniti un mito. Il suo successore, non importa chi e quando, avrà una missione al limite dell’impossibile: rendere l’America Great Again.