Per anni non si è potuto battere Donald Trump perché troppi uomini avevano paura del Trump in loro. Anche i non trumpiani, i progressisti, i colti, i giovani. Ridevano di lui, ma erano intimoriti da ricordi di violenze a ricreazione. Lo disprezzavano, ed erano segretamente soggiogati da quella sfrontata caricatura di bullo ricco anni Settanta (età d’oro della mascolinità tossica). È per questo – anche – che Trump è stato eletto.
Nel 2016 era una specie di Golem dei maschi bianchi preoccupati, o paranoici, o consapevoli della progressiva perdita di potere. E il suo trucido carisma ha continuato a rendere insicuri i giovani maschi progressisti colti di cui sopra. Ci hanno creduto, incredibilmente, anche loro, fino al dibattito di Cleveland e alle sceneggiate del Covid e alle twittate da paziente agitato sotto steroidi.
Episodio significativo: finito il dibattito, nel suo podcast Five Thirty Eight, Nate Silver chiede ai suoi data journalists chi avesse vinto. Il secondo giovane maschio più importante del podcast dice «Trump», assecondato dai colleghi. L’unica donna, Clare Malone, dice «guardate che ha vinto Biden», gli altri si convincono solo con gli instant polls.
La rottura emotiva dei maschi col presidente bullo è stata aiutata dagli ex repubblicanoni alfa del Lincoln Project, strateghi politici che producono i più efficaci e testosteronici spot anti Trump. Veterani dei Bush, di John McCain, di Rudy Giuliani, con curriculum di football e bistecche, giudici conservatori e Sarah Palin, sono ora tutti insieme in una località segreta insieme a dei giovani videomaker. Loro e altri come loro hanno rassicurato a sinistra e nel centrodestra non truce (e se vincerà, Biden proporrà il Decent Patriarcato, una cosa come il compassionate conservatism di Bush secondo).