Non omnis moriarAntonio Megalizzi, l’europeo

In “Il sogno di Antonio”, Paolo Borrometi racconta la vita del giovane giornalista di Europhonica, morto tre giorni dopo la strage di Strasburgo dell’11 dicembre 2018. Si batteva per unire le sue due grandi passioni: l’Europa e il giornalismo, mettendo nel lavoro tutto il suo contagioso entusiasmo

«Mi sono innamorato dell’Unione Europea». È un bellissimo inno d’amore, quello che Antonio dedica all’Europa solo qualche giorno prima di morire. «Antonio l’europeo»: così è stato definito nei giorni immediatamente successivi. Mi piace questa definizione. La sua è stata certamente l’interpretazione più poetica di questa Europa, la sua faccia più limpida e sognante, quella della cosiddetta «generazione Erasmus», la più europeista di sempre. Giovani cosmopoliti, cresciuti in un mondo in cui l’Europa c’è stata da sempre, che parlano più di una lingua, che viaggiano senza avere confini e diventano adulti godendo delle opportunità che l’unificazione ha dato loro.

Numeri alla mano, a ben vedere, i giovani che realmente hanno beneficiato del progetto Erasmus – il progetto di scambio tra universitari nato nel 1987 – non sono poi così tanti. Secondo alcuni osservatori troppo pochi comunque perché abbia un senso parlare dei nostri ragazzi come di una «generazione europea». Secondo altri, non è da dimenticare nemmeno che moltissimi di loro sono all’estero non per studiare o perché amano l’Europa ma per garantirsi un futuro lavorativo ed economico che avvertono sempre più incerto nel nostro Paese. Eppure il fatto che ognuno di loro (e di noi) possa godere di incontestabili vantaggi grazie all’Unione – a cominciare dalla libertà con cui ci muoviamo o ci trasferiamo in un altro Paese – è un dato certo.

Lo è molto meno che ci si senta parte attiva del processo di integrazione europeo, o per forza europei. Erasmus o non Erasmus, definire la propria identità di cittadini e la propria appartenenza a una comunità è un processo intimo, complesso, difficilmente indagabile, che necessariamente va ben al di là di qualsiasi appellativo. Sentirsi «cittadini del mondo» significa assumersi la responsabilità di esserlo in ciascuna delle realtà cui si appartiene: dal proprio Paese il cerchio si apre all’Europa e poi al mondo. Anzi, Antonio, scherzosamente (ma non troppo), confessava di sentirsi «prima europeo, poi italiano e infine trentino», e di comportarsi come tale. Una cosa bellissima anche solo da dire, una cosa «da giovani matti», per citare ancora il Mega.

Di sicuro questo non è un modo di sentire condiviso da tutti. Tutti abitiamo l’Europa. Magari rivendichiamo la nostra appartenenza ma poi attacchiamo le sue istituzioni, miriamo a indebolirle, smantellarle, o stiamo a guardare chi prova a farlo senza scomporci troppo. Se perlopiù restiamo spettatori nei confronti di chi tuona ogni giorno contro l’Europa è perché ancora non ci sentiamo cittadini d’Europa, solo abitanti. La differenza sta tutta qui. Se Antonio e moltissimi suoi coetanei sono entusiasticamente impegnati per l’Europa è perché, a differenza di altri, loro se ne sentono cittadini a pieno titolo. Sono «per gli Stati Uniti d’Europa» perché li considerano la loro casa, «qualcosa di fondamentale», l’unica via per costruire un mondo più giusto per tutti, non solo un traguardo per gli europei di oggi o di domani.

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E si finisce così per dimenticare che la costruzione europea è una potente fonte di sicurezza e di pace per il domani. E che servono emozioni per l’ideale europeo, che serve, insomma, una nuova passione civile. Quella che di sicuro anima chi ambisce a costruire attorno a un sogno europeo un percorso stabile di vita e di lavoro, coniugando entusiasmo e pragmatismo, competenze professionali e slanci ideali, proprio come Antonio, che scriveva: «Sono molto, molto focalizzato e coinvolto in cose che stanno nascendo fortemente europeiste. […] L’idea è proseguire quello che faccio ora a Strasburgo ma in maniera continuativa, perché ancora non esiste un media service giovane che si occupi di Unione Europea».

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Non avrebbe potuto che andarci dentro, Antonio, in quell’Europa. Fino al cuore. E raccontarla anzitutto via radio, da dietro un microfono. Chi, se non lui? Sapeva bene che i nazionalismi stavano rinascendo quasi ovunque, alimentando atteggiamenti emotivi e irrazionali, e che in tanti avrebbero voluto il fallimento del progetto europeo. Che dentro e fuori i confini dell’Unione militano potenti interessi politici, finanziari ed economici, e che potrebbero vincere la partita, perché la storia non è mai prevedibile. Se è vero che le istituzioni sono difficili da creare ma anche difficili da distruggere, la narrativa della paura potrebbe finire per imporsi, alimentata da quelle che il nostro presidente Sergio Mattarella ha efficacemente definito le «tendenze alla regressione della storia».

Ed ecco, allora, che l’esigenza di raccontare, avvicinare, sensibilizzare si fa per lui ancora più urgente. Costruire una narrativa nuova, dunque, un discorso diverso, più accessibile (e pop), capace di stimolare un approccio più costruttivo per rendere quest’Europa più forte e più vicina. Per trasformare i suoi abitanti in cittadini. Questa – per il direttore de «La Civiltà Cattolica», padre Antonio Spadaro – «è l’eredità di Antonio, cittadino europeo normale, consapevole della costruzione del nostro destino, consapevole del fatto che questo destino era anche nelle sue mani. La sua – da giornalista – era una forma dinamica e vitale di partecipazione. Solo una forma attiva di partecipazione ci salverà dal vedere l’Europa come una minaccia».

Perché è così che appare a molti. Come un pericolo. E Antonio ne era conscio. Conscio che tra l’indifferenza di molti ci sono correnti di pensiero che fanno appello a emozioni che vanno al di là persino di qualsiasi argomentazione razionale, aggiungo io, e non solo in Italia (lo stesso accade in Baviera, in Ungheria o in Austria). Per questo riuscire a far arrivare – soprattutto alla pancia dei giovani – un messaggio opposto era fondamentale per lui. Malgrado sapesse bene, intendiamoci, che l’Europa in cui si muoveva non era affatto perfetta.

L’Europa che conosciamo non è quella del «sogno di Antonio». Non lo è per nulla. O almeno, se vogliamo essere ottimisti, non lo è ancora. Non è una «cosa », l’Europa: è un processo, un cammino. La nostra più grande sfida consiste proprio nell’avere contezza che oggi siamo ancora in corsa. È lecito criticare un’istituzione per gli errori che può aver commesso o sta commettendo, ma volerne fare a meno, volerla abolire è tutt’altra cosa, sarebbe un errore fatale. Antonio se lo ripeteva spesso: «Il sistema sarà anche malato, ma se invece di curarlo lo aggrediamo ancora di più, la guarigione si fa sempre più lontana».

Non si migliora l’Europa svuotandola delle sue prerogative. Solo facendola crescere. Uno dei suoi problemi è che politicamente è ancora troppo poco unita. Rallentata. Frenata dalle rivendicazioni di governi che inseguono quello che credono essere l’interesse del loro Paese. Preoccupati che la loro autonomia venga soffocata, finiscono per guardare il dito e perdere di vista la luna. Prima di respingere l’Unione bisognerebbe riflettere sulle possibili conseguenze di un ritorno alle barriere nazionali: nel mondo che ci aspetta, molte scelte fondamentali per la nostra vita, individuale e collettiva, verranno sempre più compiute da un piccolo numero di grandi Stati, di dimensioni continentali (Cina, Stati Uniti, Russia, India).

Gli Stati nazionali europei sono troppo piccoli per poter rispondere in modo adeguato a ciò che li attende (basti pensare che la popolazione europea è meno del 7 per cento di quella mondiale, un numero destinato a scendere), quali che siano le capacità di chi li governa: penso appunto al mantenimento della pace – un tema molto caro ad Antonio – o alla difesa dei nostri confini dai rischi di possibili guerre (se alle nostre spalle abbiamo più o meno tre quarti di secolo di pace è stato proprio grazie al ruolo fondamentale giocato dal processo di integrazione); a una crescita economica sostenibile; a scelte coraggiose per il clima e per l’ambiente; a politiche migratorie solidali, razionali, condivise; alla tutela del lavoro e dei livelli occupazionali in un mondo sempre più globalizzato e digitale, o alla gestione delle sue molte implicazioni.

E queste sono soltanto alcune delle numerose partite che ci attendono. Solo l’Europa unita può garantire il loro buon esito nel lungo periodo, giocando a livello europeo quelle a cui le singole nazioni non riescono a far fronte: è qui il principio di base di un’unione federale. L’Unione Europea è in un certo senso la via per recuperare la sovranità perduta senza togliere nulla alle identità e alle sovranità nazionali, permettendoci anzi di restare persino «un po’ sovranisti» (come scherzando diceva Antonio parlando di sé).

Da “Il sogno di Antonio- Storia di un ragazzo europeo” (Solferino) di Paolo Borrometi, 2019, 192 pagine, 18 euro

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