Prende posizione, suona istituzionale, rassicurante e anche ferma nelle sue convinzioni, ma capita pure che si fermi a un passo dal risultare politica. Il primo anno di mandato di Ursula von der Leyen è fatto di luci e ombre non solo sul piano macro – dove è stato terremotato dalla pandemia -, ma anche su quello personale, che riguarda parole, opere e omissioni dell’ex ministra della Difesa tedesca del suo stile di lotta e di governo. O di governi.
L’agenda politica della presidente che ha lanciato il Green Deal europeo e Next Generation EU è volutamente ambiziosa e progressista – l’obiettivo neutralità climatica, la consapevolezza che bisogna fare debito insieme per finanziare la ripresa -, ma si trova comunque a navigare fra le turbolente acque di un’Unione europea fatta di Ventisette Stati membri che l’hanno indicata come presidente della Commissione, un anno fa, vincendo un braccio di ferro contro i fautori del sistema degli Spitzenkandidaten. Acque che la presidente naviga, ma non sfida. Ne asseconda i flutti, ma non prende iniziative temerarie nella cabina di comando.
Insomma, Ursula von der Leyen s’è rivelata una tessitrice con una chiara agenda politica, ma che non cerca lo scontro politico con le capitali, che trova rifugio nella lettera dei Trattati quando alcune di esse (vedi alla voce Polonia e Ungheria) si allontanano dal selciato. «Chi ha dubbi sul meccanismo a tutela dello stato di diritto vada davanti alla Corte di Giustizia».
Riscuote applausi quasi da record in Parlamento, quando ammonisce che le LGBTQI-free zone sono in realtà delle humanity-free zone, riferendosi a uno dei provvedimenti liberticidi nella Polonia governata dall’ultradestra, salvo omettere di chiamare Varsavia in causa. «Le nostre libertà fondamentali non paghino le spese delle misure emergenziali adottate dagli Stati per far fronte alla pandemia», aveva detto ancora a maggio, nei giorni in cui il governo ungherese di Viktor Orbán si faceva dare i pieni poteri dal Parlamento, salvo sorvolare sul destinatario della reprimenda.
Ma Ursula von der Leyen non è Jean-Claude Juncker, che faceva sfoggio di uno stile sbarazzino e una personalità politica a volte sui generis. «Ecco, arriva il dittatore», disse dando il benvenuto (e un buffetto di rara intensità) a Orbán, in occasione di un vertice del Partenariato orientale a Riga, nel 2015. Siparietti a parte, con Juncker e gran parte del partito di cui sono entrambi membri, il Partito popolare europeo, la tedesca condivide una certa claudicante volontà politica: i cristiano-democratici (dove siedono anche gli eletti di Forza Italia) abbaiano contro gli ungheresi ma non si decidono a mordere, con l’espulsione dalla famiglia politica e dal gruppo parlamentare.
Una presidente attenta alle attribuzioni di ciascuna istituzione e che non alza la voce, anche a costo di suonare quasi accondiscendente con i capi di Stato e di governo che ne hanno voluto l’ascesa al Berlaymont. Come quando si guardò bene dal fare da scudo a un membro della sua squadra esposto dall’esecutivo del Paese di provenienza ad attacchi per aver violato le norme anti-contagio (l’irlandese Phil Hogan, silurato e sostituito dopo l’estate).
Eppure, in questi dodici mesi, von der Leyen è stata accusata di comunicare tanto – persino troppo, con ripetute e quasi quotidiane apparizioni video sui social media -, ma non sempre bene o verso l’audience che per prima meriterebbe la sua attenzione.
Ha, insomma, frequentemente bypassato il filtro democratico rappresentato dalle conferenze stampa (o s’è sottratta – à la Trump – alle domande al termine delle stesse, dopo aver duettato sul podio con il commissario o la commissaria competente), preferendo un vetero-pentastellato rapporto diretto con i cittadini europei, guardandoli negli occhi attraverso – è la dittatura della pandemia – i device digitali.
È andata così anche per la conferenza stampa inizialmente prevista per oggi e successivamente annullata. Il clima non è chiaramente da festeggiamenti, ma il primo giro di boa della sua Commissione avrebbe forse meritato un punto stampa.
Nelle scorse settimane, però, la presidente della Commissione non ha perso l’occasione di lanciare l’iniziativa #AskThePresident: un invito agli europei e alle europee a registrare un breve videomessaggio con una domanda all’attenzione di von der Leyen. Importanti campagne di comunicazione che lasciano poco spazio alla costruzione dell’informazione.
Eppure, nonostante un marketing da multinazionale innovativa (la presentazione della squadra di commissari, del resto, somigliava molto da vicino all’evento-lancio di un nuovo modello di iPhone), la presidente sembra avere qualche problema proprio con la comunicazione. Di certo, non le sono mancate le dritte. Già prima dell’insediamento alla testa dell’esecutivo Ue, von der Leyen aveva assunto a titolo personale un’agenzia di consulenza in relazioni pubbliche – Storymachine, fondata da un ex direttore del tabloid tedesco Bild – per consigliarla sulla sua presenza social. Storymachine avrebbe poi continuato a consigliare von der Leyen fino allo scorso maggio – ma sporadicamente e senza mai interferire sul messaggio politico, ha messo le mani avanti il portavoce della Commissione -.
La forma – è vero – è sostanza, ma se dallo stile di governo si passa ai dossier, von der Leyen appare sotto un’altra luce. Quasi cento le proposte legislative andate in porto in quest’anno; un numero destinato a lievitare nel momento in cui si sbloccherà lo stallo sul bilancio e si adotteranno i vari regolamenti relativi ai programmi dell’Ue.
Ad aprile, un arcinoto articolo di Forbes dava alle donne leader nel mondo la palma d’oro per la migliore gestione della pandemia (più di mille i provvedimenti d’ogni sorta adottati dalla Commissione europea in risposta al coronavirus, inclusi a oggi sei contratti per il vaccino prossimo venturo); nella graduatoria, un posto lo merita anche von der Leyen, che ancora qualche giorno fa ha ricordato di aver sempre insegnato «alle mie figlie che non ci sono lavori per uomini o lavori per donne».
Verde e digitale, i due pilastri dell’azione di von der Leyen – fra i sei assi prioritari individuati dalla Commissione all’avvio del mandato -, sono ancora là, e anzi sono diventati i due mantra attorno a cui ha preso forma Next Generation Eu, l’ambizioso progetto di rilancio dell’Europa post-virus, che proprio alla transizione ecologica e a quella digitale dedica rispettivamente il 37% e il 20% dei 750 miliardi di euro previsti nel piano. A febbraio si parlava ancora soltanto di strategia europea contro il cancro – fra i focus d’iniziativa della Commissione -; mentre la pandemia metteva in crisi il codice genetico di un’Ue fatta di libertà di movimento e divieto di aiuti di Stato, la Commissione ha in pochi mesi acceso i riflettori sull’Unione della salute, con un bilancio dedicato e la consapevolezza che il riparto di competenze in seno all’Ue non può essere un alibi per stare fermi.
Nell’anno funestato dalla Brexit e dai negoziati sulle relazioni future che si sono andati a cacciare in zona Cesarini, von der Leyen ha ribadito la centralità della vocazione geopolitica della sua Commissione, che con l’imminente presidenza Biden è chiamata a misurarsi con ciò che vuole fare della sua autonomia strategica. Mentre Londra lasciava l’Unione, von der Leyen si occupava del lancio di una relazione alla pari con i partner africani e provava a sbloccare il nodo allargamento con una nuova metodologia per i Paesi candidati all’adesione – un dossier, tuttavia, finito di nuovo nell’occhio del ciclone a causa dell’impuntatura di uno Stato membro, stavolta la Bulgaria -. Ha gettato il cuore oltre l’ostacolo, poi, proponendo un Nuovo patto sulla migrazione – già finito nel mirino dei tiratori non poi tanto scelti delle capitali – e, una prima assoluta, una Strategia per l’uguaglianza LGBTQI.
Ma non siamo che al primo pit-stop di una presidenza che ha davanti a sé sfide e aspirazioni esistenziali. E chi l’ha detto che fra quattro anni, guardando indietro al mandato di von der Leyen, non troveremo anche una più assertiva e agguerrita controparte di tanti governi nazionali.