Dall’osanna al crucifige. Ecco quale sembra esser stato il destino del sistema di accoglienza trentino secondo l’ultima ricerca commissionata a Euricse dalla rete di organizzazioni Arcobaleno, Centro Astalli, Atas, Cgil e Kaleidoscopio. In pochi anni, complice il clima politico e sociale, il sistema di accoglienza in Trentino, una volta modello d’eccellenza per l’Italia, è diventato un esempio negativo.
Nel volume “Il Tramonto dell’accoglienza”, quattro ricercatori hanno rilevato che – dal punto di vista sociologico, antropologico e politico-economico – l’entrata in vigore del Decreto Sicurezza e Immigrazione tra il 2018 e il 2019 abbia avuto un forte impatto non solo sui migranti, ma anche sulle diverse figure professionali e servizi pubblici coinvolti.
Il risultato è stato un taglio delle spese presentato in primis come un risparmio per gli italiani che, nel tempo, si è rivelato un grande prezzo da pagare in termini di ricadute economiche sul territorio. Insomma, il “prima gli italiani” urlato nelle piazze nascondeva in realtà un boccone avvelenato.
Ma da dove nasce l’eccellenza del sistema trentino? Come si legge nel volume, in Italia il problema dell’immigrazione è iniziato a essere preso sul serio dalle istituzioni nel 1999, con l’arrivo dei rifugiati dal Kosovo. Pochi anni dopo, in Trentino si crea il Centro Informativo per l’Immigrazione, un ente dedicato al fenomeno migratorio e all’accoglienza che tutt’oggi è il braccio destro della Provincia Autonoma di Trento nell’ambito delle procedure amministrative e della collaborazione regionale tra cooperative ed enti del terzo settore.
Con un approccio che unisce l’ente pubblico e il privato, la regione è riuscita a semplificare «le richieste di rilascio e di rinnovo dei titoli di soggiorno (grazie a un accordo tra Questura di Trento e Provincia autonoma)» e a «organizzare iniziative di comunicazione e sensibilizzazione dell’opinione pubblica, accompagnate dallo sviluppo della conoscenza sull’immigrazione attraverso studi e ricerche ad hoc».
Non da ultimo, gli enti hanno sviluppato anche dei percorsi di integrazione per i minori non accompagnati e per le vittime di tratta. Il ruolo della Provincia, quindi, è stato fondamentale nel rendere il sistema trentino centralizzato e ben funzionante, riuscendo a coordinare ben 20 enti gestori e a coinvolgere sempre più comuni (42 comuni nel 2016, 65 nel 2017, 69 a fine 2018).
Anche il numero di persone accolte è aumentato nel tempo: da 226 nel 2014 a 687 alla fine dell’anno successivo, per poi arrivare a 1.226 nel 2016 e a 1.518 nel 2017. Negli ultimi due anni, un leggero calo: da 1.200 a fine 2018 a mille nel giugno del 2019.
Dal 2018, questo meccanismo ben oliato ha subito una battuta di arresto: l’unica provincia italiana in cui esisteva un sistema di accoglienza avanzato ha dovuto assistere, quasi inerme, al suo drastico smantellamento. Le ragioni di questo rapido declino si trovano nella congiuntura politica tra l’emanazione del “Decreto Salvini” e l’elezione di una giunta provinciale fedele al Carroccio.
Cronaca di una morte annunciata
Con il Decreto Salvini, il numero delle richieste di asilo sono crollate, e i centri con loro: le strutture sono passate da 170 a 84 a fine 2019, ostacolando il progetto di accoglienza diffusa promosso dalla regione per così tanto tempo.
Il decreto infatti prevedeva non solo la cancellazione del permesso per protezione umanitaria, ma anche la diminuzione del tempo di permanenza nei centri, prediligendo i grandi centri collettivi. In questo modo, la proporzione di migranti sul territorio si è fatta sempre più disomogenea e la loro presa in carico sempre più complessa.
Un esempio da manuale è la chiusura da parte della Provincia autonoma del Centro di prima accoglienza di Marco di Rovereto, a inizio 2019. Questa decisione ha provocato lo spostamento di circa 80 persone nella residenza “Fersina” a Trento, che già ospitava circa 150 richiedenti protezione internazionale. Sempre da decreto, infine, i centri non sono più tenuti a fornire aiuto all’integrazione né servizi di assistenza psicologica.
Senza l’aiuto delle strutture, è aumentata la precarietà dei richiedenti asilo: meno assistenza per i permessi di soggiorno, più irregolari sul territorio (anche se sempre meno rispetto alla media europea). Meno servizi di orientamento, formazione e inclusione lavorativa e, di conseguenza, un aumento del ricorso al lavoro in nero, che porta a una possibile riduzione delle entrate per lo Stato di tutti quei migranti che avrebbero potuto essere assunti regolarmente e pagare i contributi.
E le ripercussioni economiche non si fermano qui: nel 2016, infatti, durante il picco delle presenze, «la spesa pubblica per l’accoglienza dei migranti ha contribuito a generare lo 0,03 per cento del valore della produzione dell’economia trentina, con un’attivazione di oltre 9 milioni di euro distribuiti in particolare tra commercio, alloggio e ristorazione, sanità e assistenza sociale, oltre a trasporto e prestazioni professionali», si legge nel rapporto Euricse.
Per ogni euro speso in accoglienza, il sistema trentino riusciva insomma a generare quasi due euro di valore della produzione.
Con il taglio delle risorse da parte del governo nazionale, che ha ridotto a 24 euro al giorno la spesa per ogni richiedente asilo, il governo guadagna circa 1,8 milioni di euro, ma il territorio – non solo centri di accoglienza e richiedenti asilo – s’impoverisce.
I contratti delle persone che lavoravano nei centri, così come quelli di altri operatori per un totale di circa 140 persone, non sono più stati rinnovati a partire dall’inizio del 2019: si tratta di lavoratori trentini altamente specializzati che da quel momento sono stati costretti a cercare lavoro al di fuori della Provincia, disperdendo le loro preziose competenze altrove.
Inoltre, data la riduzione delle risorse economiche destinate alla formazione linguistica, aumenta la necessità di volontari. Un gesto nobile, quello del volontariato, ma che, secondo i ricercatori, «va considerato a tutti gli effetti alla stregua di un costo sociale, in quanto presuppone l’utilizzo di un monte ore che potrebbe essere dedicato ad altre attività di interesse personale».
Chi ruba il lavoro a chi?
Certe convinzioni sono dure a morire, e quella che recita “i migranti ci rubano il lavoro” è una delle più resistenti. Dati alla mano, però, sembrerebbe vero il contrario: i migranti creano lavoro per gli italiani, e non solo nel settore dell’accoglienza, ma anche nei servizi, nella ristorazione, nella ricerca e in molti altri.
Il volume “Il Tramonto dell’accoglienza” lo dimostra: il taglio delle risorse e le misure restrittive fanno bella figura nelle piazze, ma generano nel tempo una serie di ricadute economiche e sociali negative sul territorio. Come ben riassume uno degli intervistati, «non è un taglio per loro, è un taglio che abbiamo fatto a noi. Cioè, questo deve essere il messaggio che passa: non è che abbiamo tagliato l’accoglienza a qualcun altro, abbiamo tagliato delle possibilità per noi».
Fortunatamente, queste scelte politiche ben poco lungimiranti hanno subito negli ultimi giorni delle sostanziali modifiche. Nel pomeriggio del 18 dicembre, infatti, il Senato ha approvato il decreto che modifica il Decreto sicurezza e che prevede il ritorno della protezione umanitaria, una delle tre forme di protezione che, insieme all’asilo politico e alla protezione sussidiaria, i richiedenti asilo potevano ricevere.