Faduma ha 25 anni e viene dalla Somalia. È una richiedente asilo fuggita attraverso la Libia, dove ha subito violenze sessuali da un gruppo di miliziani. La ragazza presenta traumi irreversibili legati a quella esperienza e la sua vita da quel momento non è stata più la stessa. Mohamed invece ha 56 anni ed è originario del Sudan, della zona del Darfur. I conflitti civili che hanno segnato la regione dai primi anni 2000 lo hanno costretto a scappare: impresa che per lui si è rivelata ancora più difficile in quanto affetto fin da giovane da schizofrenia. Come Faduma e Mohamed sono numerosi i profughi affetti da forme di psicosi che arrivano sulle coste italiane, in particolare a Lampedusa. Molti sono traumatizzati dalle violenze che subiscono durante i viaggi in mare o nei centri di detenzioni libici, altri affetti da patologie congenite mai diagnosticate prima.
In Italia le strutture specializzate nell’accoglienza di questi soggetti vulnerabili non sono sufficienti: secondo il report annuale del ministero dell’Interno, per oltre 2.000 persone (quelle cui è stata ufficialmente diagnosticata la patologia) sono disponibili 734 posti e i numeri sono in costante aumento. Mentre i progetti finanziati dal Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo sono soltanto 52 (contro i 681 per “categorie ordinarie”), per un totale di migranti con disagio mentale adeguatamente assistiti che sfiora solamente il 2,3% del totale. In più, la collocazione geografica dei luoghi dedicati a questi profughi rimane del tutto diseguale. Sono otto le regioni che non dispongono di centri specializzati, tra cui Abruzzo, Liguria, Molise, Campania, Sardegna e Veneto. Ed esclusi i casi più virtuosi di Sicilia e Puglia, nelle altre regione i posti disponibili sono in media una trentina.
Le ultime modifiche volute dal governo ai decreti sicurezza di Salvini, però, ripristinano di fatto un permesso di soggiorno per motivi umanitari che era previsto dal Testo unico sull’immigrazione del 1998, che si chiamerà «protezione speciale». Questo tipo di permesso verrà concesso agli stranieri che presentano seri motivi, in particolare di carattere umanitario o «risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello stato italiano». Questi tipi di permessi diventano inoltre convertibili in permesso di soggiorno per motivi di lavoro, «ove ne ricorrano i requisiti».
Torna anche il sistema di accoglienza Sprar/Siproimi, che cambia ancora una volta nome e diventa Sistema di accoglienza e integrazione: ripristinato e gestito nuovamente dai comuni, vi potranno accedere i richiedenti asilo e i casi più vulnerabili, i minori e i beneficiari di protezione internazionale. A ciò si aggiunge la fruizione di servizi di primo livello per i richiedenti protezione internazionale, che includono l’accoglienza materiale, l’assistenza sanitaria, l’assistenza sociale e psicologica, la mediazione linguistico-culturale, i corsi di lingua italiana, e i servizi di orientamento legale e al territorio.
Un passo avanti sotto molti aspetti, che tuttavia non tiene conto del fatto che molti dei migranti vulnerabili non sono in grado di apprendere a quale forma di protezione internazionale possono accedere. La gran parte di loro non riesce neppure a presentarsi davanti alle commissioni territoriali per ufficializzare la richiesta d’asilo (iter che resta anche con le modifica dei decreti sicurezza), e durante le visite mediche di primo livello raramente viene diagnosticata o individuata una patologia mentale. E così i migranti diventano estranei a tutto, fantasmi nella mente e per la legge. Così come, di conseguenza, il numero reale di coloro che sono affetti da disabilità mentale è difficilmente calcolabile, ma comunque molto distante dalle 2.000 unità del rapporto ministeriale.
«Rimangono in un limbo proprio perché senza assistenza legale e mediatori culturali non riescono a spiegare la loro storia. L’unico modo per arrivare nei centri specializzati è richiedere un supporto psicologico, ma anche in quel caso devono comparire davanti al questore e sostenere un colloquio, e difficilmente accade» spiega Laura Arduini, responsabile dell’Area Salute della Casa della Carità di Milano, uno dei principali centri di accoglienza di migranti con forme di psicosi. «Come nel caso di Faduma. Dopo essere stata in un centro di prima accoglienza, come prevede l’iter, è stata mandata da noi. Era impossibile stargli vicino: urlava, mordeva e aveva degli improvvisi attacchi epilettici. Abbiamo poi scoperto che era incinta di tre mesi, lo stesso arco di tempo che era passato dalla violenza subita».
La struttura milanese ha a disposizione solo 8 posti per i profughi che presentano disturbi mentali, mentre in Lombardia, nel totale, sono 13. Nel tempo in cui sono ricoverati, il più delle volte, i migranti non riescono a ristabilirsi, perché «ritrovare la salute mentale non ha un tempistica precisa», aggiunge Arduini. Per allungare la permanenza dei profughi vulnerabili, i centri fanno dunque perno sui permessi umanitari e sulle garanzie concesse dalla normativa. Ma anche in questo caso solo le strutture provviste di una sezione legale riescono nell’impresa. Per tutti gli altri, terminato l’anno e mezzo, esiste soltanto la libertà. O, per meglio dire, l’abbandono e una vita da nulla tenenti. Non importa se clandestini o rifugiati.
«Nella parrocchia di Vicofaro ospitiamo circa 186 migranti, di cui una decina presentano dei chiari disturbi psichici» dice Don Biancalani, vescovo di Pistoia che ha allestito un centro di accoglienza nella propria chiesa. «Alcuni sono ragazzi giovanissimi che arrivano da noi traumatizzati dal viaggio o dalle torture subite. Altri, invece, a causa della lingua, della lontananza da casa o del crudo impatto con una realtà diversa da quella immaginata, finiscono per fare abuso di alcol e droghe per poi cadere in gravi forme di depressione» continua Biancalani.
Il volto di Yasin racchiude tutte queste sofferenze. Arrivato a Vicofaro dal Niger a 17 anni, nel giovane albergano ferite invisibili e i suoi occhi passano giornate intere a fissare il vuoto, mentre dalla sua bocca non esce suono alcuno. Yasin tuttavia può considerarsi fortunato, perché in alcune zone dell’Africa molti ragazzi affetti da ritardi mentali vengono uccisi in quanto considerati creature diaboliche.
Per i migranti come Yasin la Toscana mette a disposizione 43 posti ufficiali. Troppo pochi per una regione che ospita comunità numerose come quelle di Don Biancalani, che da sola conta quasi 200 migranti. Una carenza che introduce un altro dei problemi della gestione di questi profughi: quello dei numeri ufficiali e sommersi. A Pistoia, dove a sede Vicofaro, i letti disponibili per esempio sono zero. Questo perché le comunità hanno fondi limitati e possono fornire assistenza e posti letto nella misura in cui lo Stato gliele assegna. Di conseguenza, per assistere e curare un migrante in difficoltà come Yasin, in queste realtà ci si affida alla «solidarietà dei medici e degli psichiatri dell’ospedale cittadino», afferma Biancalani. Solidarietà che non sempre è sufficiente, dato che le fragilità psichiche di un migrante «necessitano di un’assistenza continua e presente, oltre che di medicinali specifici», ricorda la dottoressa Arduini. «Bisogna infatti ricordare che sia per la presa in cura sia per la dotazione dei farmaci i migranti devono avere il permesso di soggiorno, cosa alquanto rara. E così sono migliaia i profughi che rimangono invisibili e impossibilitati ad accedere ai Centri Psico Sociali territoriali e alle cure dei medici di base» ricorda Arduini.
Alla scarsa disponibilità di strutture e cure, in questo ultimo periodo si sono aggiunte anche le difficoltà scaturite dal coronavirus. Il blocco totale delle attività e degli spostamenti ha causato delle crisi psichiche in molti soggetti vulnerabili che, per circa due mesi, hanno potuto godere del minimo sindacale in termini di assistenza e contatto umano. Mohamed, per esempio, è stato vittima di ripetuti attacchi schizofrenici che in alcuni casi si sono trasformati in scatti violenti verso gli alti migranti. «La nostra struttura ha potuto mantenere attivi solo due operatori sanitari, a fronte degli otto migranti con disabilità mentale e dei ventiquattro normodotati risiedenti. Tutte le attività giornaliere, come i colloqui, sono saltate. E la ricaduta di questa chiusura sulle persone vulnerabili è stata evidente» dice Mauro Storti, referente Sprar Co&So di Firenze. Per Mohamed l’emergenza sanitaria ha significato anche perdere il suo impiego da lavapiatti che tramite un tirocinio era riuscito a ottenere in un hotel del centro di Firenze. Privato così della possibilità di poter mandare a casa i pochi soldi guadagnati con quel lavoro, Mohamed è ricaduto nelle zone più buie della sua patologia.
Il virus ha portato a galla anche la questione della capienza massima che i centri di accoglienza possono raggiungere. La Casa della Carità di Milano si è attrezzata per eventuali situazioni emergenziali simili bloccando il numero di ingressi nell’istituto. Mentre a Vicofaro questo non è stato possibile, e i quasi 200 migranti dormono uno accanto all’altro nel piano elevato della chiesa. Mangiano negli stessi spazi e condividono gli stessi servizi igienici. «Siamo noi enti privati a doverci occupare dei soggetti in difficoltà. E nonostante il rischio che corriamo, le nostre porte rimarranno sempre aperte» promette Biancalani.
Quanto all’aumento degli sbarchi registrato e largamente previsto dopo la fine dell’emergenza sanitaria, a differenza degli slogan politici, influisce solo minimamente sulle criticità che i centri specializzati denunciano. «La scarsità di posti non è dovuta ai flussi migratori più recenti. La nostra lista di attesa è bloccata da tre anni, e scorre con molta lentezza. I migranti che hanno bisogno di supporto psichico sono sempre di più e i centri di prima accoglienza spesso non sono in grado di intercettarli, fare una diagnosi e reindirizzarli tutti» dice Storti.
Il primo incontro con i profughi, tuttavia, è anche un’occasione per tratteggiare la bozza di una cartella clinica e psichiatrica. Chi riesce ad attraversare il Mediterraneo e approda sulle coste di Lampedusa, per esempio, si mostra da subito in stato confusionale, e distinguere i profughi affetti da disabilità mentali non è affatto semplice. «Il nostro lavoro è quello di assisterli prima dello sbarco. Già in quei frangenti è possibile individuare i segni di disagio mentale: le donne sono per la maggior parte incinta e sotto shock, mentre gli uomini mostrano segni di torture e violenze» racconta Francesco Caputo, psicoterapeuta e coordinatore dei servizi psicologici della Ong Mediterranea. «Nei centri di prima accoglienza e in quelli specializzati, a cui diamo in custodia i migranti, non riescono a gestire tutte le patologie, e si verifica un sovraccarico per gli istituti sparsi per il Paese».
Come per Mohamed, arruolato come lavapiatti nel ristorante fiorentino, il percorso di questi individui vulnerabili deve avere come ultimo obiettivo l’inserimento nella società. A regola spetterebbe allo Stato guidare i soggetti prima verso le strutture pubbliche, le stesse dove vengono curati i cittadini italiani, e successivamente – in caso di guarigione del migrante – verso impieghi lavorativi. «È un traguardo pressoché irrealizzabile, sopratutto perché mancano mediatori linguistici per i migranti», conclude Arduini.
Lo stato di abbandono, la ripresa degli sbarchi e la riduzione dei posti suggerita dall’emergenza Covid-19 potrebbe portare al collasso tale situazione. «I richiedenti asilo sono sempre di più, mentre le strutture specializzate accoglieranno un numero contingentato di persone. Gli esclusi finiranno nei centri di prima accoglienza, dove il supporto psicologico è sempre meno presente, in attesa di un colloquio o una risposta dal ministero che forse non arriverà mai. Quello che possiamo fare, per il momento, è assicurare le massime attenzioni ai quei migranti che per fortuna in una struttura ci sono arrivati», assicura Storti.