Influenze reciprocheIl cibo fa impazzire il clima?

«La correlazione tra agricoltura e cambiamento climatico impone una ridefinizione dei meccanismi di produzione alimentare»: intervista a Stefano Liberti su Terra bruciata, il suo ultimo libro

Il legame profondo tra l’emergenza climatica e il nostro sistema alimentare, che oltretutto coinvolge abitudini consolidate e promette di spingerci, in un futuro non ancora ben definito, verso rinunce dolorose e cambiamenti di rotta significativi, è ormai cosa assodata. E a modo suo il percorso di Stefano Liberti, scrittore e giornalista autore di numerose inchieste, ne è la dimostrazione: dopo essersi occupato di migrazioni e land grabbing, al cibo ha dedicato un paio di libri belli e importanti come I signori del cibo (Minimum Fax, 2016) e Il grande carrello (con Fabio Ciconte, Laterza 2019), oltre a una serie di fortunati articoli comparsi su Internazionale. Da qui al tema del cambiamento climatico il passo è stato breve, e si è concretizzato con l’uscita di Terra bruciata, pubblicato per Rizzoli a settembre 2020: un libro sull’Italia e sulle sfide che ci troviamo di fronte, dallo scioglimento dei ghiacciai alpini all’innalzamento del livello del mare tra la foce del Po e Venezia, dagli eventi estremi alle sofferenze dell’agricoltura, tra invasioni di cimici e scomparsa delle api, per arrivare ai modelli più o meno sostenibili di vita nelle nostre città.

Tra le sue pagine si parla inevitabilmente anche di questioni legate all’universo gastronomico e ai sistemi di produzione del cibo, ed è su questi temi che abbiamo voluto concentrarci in questa intervista. Ovviamente non basta il seguente botta e risposta per esaurire la ricchezza di argomenti affrontati nel libro, motivo per cui per parlare a 360° di Terra bruciata vi diamo appuntamento anche alla diretta sulla pagina Facebook di Linkiesta: giovedì 17 dicembre alle ore 18:00 avremo modo di chiacchierare proprio con Stefano Liberti e ampliare l’orizzonte della discussione.

Se c’è una cosa che la pandemia ha fatto è stato svuotare alcune delle piazze più popolate degli ultimi mesi, quelle dei Fridays for Future. Come ne esce da questa situazione la lotta al cambiamento climatico? Questa fase sta distogliendo l’attenzione pubblica dal tema?

Sicuramente sì, il tema adesso è un po’ più trascurato. Io sono dell’idea che si tratti di una parentesi perché quello della pandemia con tutto il suo portato non è un evento particolarmente trasformativo: nel momento in cui si arriverà a un vaccino si tornerà allo status quo ante con tutte le conseguenze che ciò comporta. Da un certo punto di vista sono conseguenze positive, perché si riprenderanno delle attività che erano del tutto sospese, ma da altri sono negative perché credo che questa pandemia non stia portando a delle vere discussioni sulle cause che l’hanno generata, che rimandano proprio al cambiamento climatico. Ovviamente sarà un anno perso in questa lotta.

Nelle ultime righe del libro scrivi che servono nuove politiche energetiche e industriali, piani di salvaguardia del territorio, una diversa mobilità e nuovi criteri di produzione e consumo alimentare. Sono tante “voci” che devono necessariamente viaggiare in parallelo, ma se dovessi esprimerti con una percentuale indicativa, quanto pesa il cibo nel bilancio dell’emergenza climatica che ci troviamo ad affrontare?

In termini di impatto ci sono i dati della FAO che parlano del 17% del ruolo della produzione alimentare sulle emissioni climalteranti, quindi un ruolo abbastanza importante, tenendo conto anche dell’impatto grandissimo degli allevamenti intensivi. Ma io farei un discorso un po’ più vasto, nel senso che quando vai a vedere l’agricoltura la cosa interessante è che è l’unica attività che è al contempo vittima e carnefice, cioè che produce cambiamento climatico, aumenta le emissioni ed è una delle cause del surriscaldamento, ma poi ne subisce anche fortemente le conseguenze, perché chiunque fa agricoltura sa benissimo che negli ultimi dieci anni è diventato sempre più difficile produrre, proprio a causa della variabile climatica che non è più prevedibile. Aumentano gli eventi estremi che impattano sulla produzione, ma aumenta anche un certo tipo di andamento erratico del clima, per cui tu spesso hai temperature anomale nei mesi invernali e gelate primaverili, oppure c’è tutta la questione della api di cui scrivo nel libro. Quindi più che fare un discorso di impatto diretto farei un discorso di correlazione tra agricoltura e cambiamento climatico, che impone una ridefinizione dei meccanismi di produzione. E questo devo dire che sta anche un po’ avvenendo, sempre alle nostre latitudini, dove c’è un’agricoltura diversa rispetto a quella dei grandi paesi produttori in cui si fa solo agricoltura intensiva e si fanno monocolture con numeri che noi non potremmo neanche avere per mancanza di spazio.

Sempre in chiusura arrivi a delineare il ruolo dell’agricoltore-sentinella, in quanto primo testimone – sulla propria pelle – delle conseguenze dei cambiamenti climatici, e scrivi che bisogna rovesciare l’attuale paradigma produttivo e di consumo. Quel paradigma in Europa oggi è soprattutto il sistema agricolo che si regge sulla famigerata PAC recentemente ribadito, o vedi altri pilastri del sistema-cibo su cui c’è maggiore urgenza di intervenire?

Secondo me bisogna intervenire su tutti i meccanismi di filiera rendendoli più trasparenti ed esplicitando l’impatto che un certo tipo di produzione ha. Ovviamente i meccanismi di produzione a livello europeo sono premiali rispetto a un certo tipo di produzione intensiva e quantitativa, e la nuova PAC, sia pure con novità interessanti, si muove ancora in quel solco lì. Tu vieni premiato per il numero di ettari che hai in primis, poi in secundis ci sono gli ecoschemi che ti danno una premialità aggiuntiva, ma in generale quello è il modello che è andato avanti negli ultimi decenni e viene ribadito. Se tu invece consideri la questione a livello di filiera complessiva, e ci metto sia l’industria dei trasformatori, sia la GDO, e sia anche i cittadini consumatori che devono essere un soggetto attivo, in questa fase storica forse bisognerebbe che tutti quanti svolgessero il loro ruolo, premiando un certo tipo di produzione piuttosto che un’altra, ed esplicitandolo. La GDO dovrebbe avere un ruolo chiedendo ai fornitori di fare un certo tipo di agricoltura, esercitando la leadership morale che dovrebbe avere in questa fase storica: se oggi il 70% degli acquisti alimentari si fanno nei supermercati è evidente che ricopri un ruolo importantissimo di accesso al mercato per i produttori e di accesso al cibo per i consumatori. I soggetti della GDO possono quindi esercitare una leadership morale e possono influenzare i meccanismi di produzione avendo un enorme potere contrattuale. Un certo tipo di produzione impatterà anche sui costi di produzione e sul prezzo alla vendita, quindi aumenterà il costo del cibo. Questa cosa si può riequilibrare sia riequilibrando la distribuzione del valore all’interno della filiera, che adesso è fortemente spostata verso la distribuzione rispetto alla produzione, sia accollandola in parte anche ai cittadini, ma per fare questa cosa la devi raccontare efficacemente: devi dirgli «questo tipo di produzione è fatta in un certo modo, quindi ti costa leggermente di più perché quelli che sono i costi ambientali o i costi sociali non sono più scaricati come esternalità negative sulla comunità intera e sull’ecosistema, ma sono reintrodotti nel prezzo alla vendita».

In alcune tue precedenti inchieste ti sei occupato, insieme a Fabio Ciconte, del ruolo della GDO nel nostro sistema alimentare. La GDO attraverso il suo strapotere sul mondo agricolo e produttivo ha un’influenza più o meno diretta anche su clima e ambiente? È un nodo molto problematico?

Parlerei di influenza indiretta, ma c’è comunque influenza. Quando tu chiedi una produzione che consente a chi la realizza di garantirsi un reddito soltanto se ha come assioma la produttività e la quantità, è evidente che il fornitore non può fare altro che adeguarsi a questo diktat. In generale questa è stata la linea di azione della GDO negli ultimi dieci-quindici anni: chiede sempre di più e paga sempre di meno. Mi sembra però che sia faticosamente in atto un ripensamento di questo paradigma da parte delle catene della GDO più attente, anche perché si rendono conto che quella politica dei prezzi ha fatto perdere marginalità pure a loro. Poi c’è una sempre maggiore attenzione sui temi della sostenibilità ambientale anche da parte di una certa fascia di consumatori, per cui le catene di supermercati più “alte” stanno gradualmente cambiando il loro meccanismo d’azione, promuovendo accordi di filiera, sperimentando altri tipi di marketing. Insomma penso che la GDO abbia esercitato un ruolo molto negativo negli ultimi anni, ma guardo positivamente ad alcune azioni messe in campo e ad alcune dichiarazioni, che ci indicano un timido cambiamento di rotta. Secondo me è importante che la GDO partecipi a questo processo, soprattutto in questa fase storica. Non escludo che tra vent’anni i supermercati saranno diversi o saranno sostituiti da altri meccanismi di acquisto, ma nel momento storico in cui ci troviamo a vivere la GDO ha un ruolo incredibile e quindi deve essere un soggetto attivo nel ripensamento del paradigma di produzione.

Si legge da più parti che la pandemia avrebbe causato una spinta ad abbandonare le città e a tornare in campagna, anche se i dati a livello mondiale pre-2020 sembrano dire – pesantemente – l’opposto. Nel libro sottolinei come chi abita in città abbia meno consapevolezza del cambiamento climatico: si può dire lo stesso rispetto alla produzione alimentare e alle sue storture?

Secondo me sì e secondo me è ancora più forte il parallelismo quando si dice, soprattutto nei nostri contesti, che chi vive in città ha meno consapevolezza dei fenomeni di produzione alimentare. C’è una distanza fisica e cognitiva tra chi produce il cibo e chi lo consuma. Sei sempre più distante dai luoghi di produzione, anche mentalmente. Questo produce quello che dici tu, però bisogna anche avere presente il fatto che nelle città c’è sempre una minoranza molto più consapevole, una nicchia di abitanti che ha una consapevolezza anche maggiore di chi vive nelle campagne. In Europa si osserva in effetti un piccolo fenomeno di abbandono delle città e di ripopolamento di aree interne, borghi e campagne. Un fenomeno numericamente molto marginale, anche interessante, ed è esattamente un fenomeno messo in campo da quegli stessi gruppi consapevoli che hanno maggiore capacità di osservazione e che mettono in campo soluzioni che potremmo immaginare come pionieristiche. Magari fra trent’anni gran parte delle persone si sposteranno verso le campagne, si invertirà la tendenza. Al momento è un fatto che riguarda poche migliaia di persone che stanno modificando un paradigma: mettono in campo soluzioni alternative. Questa cosa può avvenire seriamente solo se ci sono investimenti importanti per riconnettere le aree interne agli assi globali, soprattutto degli investimenti per garantire infrastrutture digitali, sennò vai in eremi lontani dalle città ma sei costretto a modificare completamente modo di vita e di lavorare, lasciando il campo alle poche persone che se lo possono permettere.

Mi pare che in generale il sistema-cibo sia uno dei sistemi in cui oggi, anche nei paesi più avanzati, c’è maggiore sfruttamento del lavoro. Se pensiamo a tre figure in particolare, il ragazzo o la ragazza che lavora in un ristorante, i migranti che lavorano nei campi in condizioni complicate o ai rider, sono tre figure a loro modo iconiche e tutte e tre hanno a che fare col cibo, la sua preparazione e la sua commercializzazione. Quindi mi e ti pongo una grande domanda: è quello alimentare un sistema che più di altri si basa sullo sfruttamento del lavoro?

Non so se lo fa più di altri, perché se andiamo a vedere altri settori forse le cose non sono poi così diverse e ci sono ambiti paragonabili. Chiaramente il cibo è un bene primario di cui tutti si servono e che riguarda ognuno di noi, quindi forse è anche più evidente questa cosa. Tutti siamo “corresponsabili” di questo sfruttamento. Perché avviene nel cibo? Perché negli ultimi anni c’è stata una riduzione del prezzo del cibo, un meccanismo che ha trasformato il cibo in commodity, e quando trasformi qualcosa in commodity necessariamente poi c’è qualcuno che ne paga il prezzo. È un discorso che ci riporta alla catena di valore: quando qualcosa perde di valore e viene venduta sottocosto qualcun altro pagherà il prezzo di questa perdita di valore, e nella fattispecie sono gli ultimi anelli della filiera a pagare il prezzo maggiore, i rider, i braccianti, i camerieri e i cuochi nei ristoranti, i commessi dei supermercati. Sono tutte figure professionali che hanno in comune l’essere il terminale ultimo di una filiera che è disfunzionale proprio perché ha uno sgretolamento della catena di valore. È su quello che bisogna intervenire distribuendo meglio il valore ma anche aumentandolo, in modo da avere una maggiore possibilità di distribuirlo in modo più equo.

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter