Il passato che non piaceIl problema del colonialismo e l’imbarazzo del British Museum verso chi lo ha fondato

Di fronte all’ondata di proteste seguite alla morte di George Floyd, istituzioni e centri di cultura inglesi hanno mostrato una simbolica presa di distanza nei confronti dell’epoca imperiale. Il museo più importante di Londra ha fatto di più, ma non sempre in modo convincente

AP Photo/Kirsty Wigglesworth

Nel 2007, alla proposta di erigere nel quartiere di Chelsea, a Londra, un monumento in onore di Sir Hans Sloane, medico naturalista e appassionato collezionista inglese del Settecento, nessuno ebbe niente da obiettare. Anzi: oltre a essere considerato l’inventore della cioccolata calda (ma è un mito), a Sloane viene fatto risalire anche il primo nucleo di quello che, negli anni, sarebbe diventato il British Museum. Insomma, nessuna critica e qualche applauso. Succedeva 13 anni fa, ma sembra un’altra epoca.

Oggi la statua è ancora al suo posto ma, in seguito alle ondate di protesta sorte dopo la morte di George Floyd in America, rischia di essere rimossa.

Sloane, che pure pochi anni fa era considerato «una persona amabile, dotata di un grande intelletto e di una mente curiosa» (almeno così diceva lo scultore, che intendeva rappresentarlo in questo modo) adesso è visto con occhi diversi. La sua colpa principale è il peccato originale dell’impero britannico: possedeva, tramite la moglie, una piantagione in Jamaica, dove lavoravano degli schiavi.

Grazie alla ricchezza che ne derivava, Sloane poté creare la sua collezione naturalistica (ma non solo) di curiosità da ogni angolo del mondo. In più era tra gli azionisti della Royal Africa Company, società che si incaricava della messa in schiavitù e del commercio dei neri africani.

Sul tema, del resto, si dimostrava abbastanza neutrale. Non era affascinato dall’incontro con l’altro né, è intuibile, era scandalizzato dalle condizioni della schiavitù. Manteneva, se così si può definire, un approccio naturalista: studiava le popolazioni giamaicane allo stesso modo in cui ne analizzava le piante e i rimedi curativi. Approvava, in linea di massima, la punizione fisica («A volte è necessaria»), prendeva nota delle reazioni degli schiavi ma, al tempo stesso, si interessava alla loro cultura e alle loro medicine (anche se era piuttosto scettico al riguardo).

Sloane apparteneva a quella zona grigia del colonialismo britannico per nulla affascinata dalla retorica dell’impero, distante dalle teorie della superiorità della razza ma che, al tempo stesso, non si faceva problemi a impiegarne l’opera e trarne i frutti.

Una figura complessa che del resto rispecchia la natura stessa dell’istituzione che discende dalle sue scoperte. Il British Museum, come spiega questo libro di James Delbourgo, esiste – e non può negarlo – anche grazie alle conquiste imperiali e alla sopraffazione e allo sfruttamento degli schiavi.

Da qui discende il profondo imbarazzo contemporaneo di molte istituzioni inglesi, che spiega anche la presa di distanza, simbolica ma immediata, da parte di scuole, centri di ricerca, musei subito dopo l’abbattimento della statua di Edward Colston a Bristol.

Il British Museum in questo senso si è distinto per il suo impegno. Forse a causa dei continui attacchi (soprattutto legati al tema, delicatissimo, della restituzione dei manufatti frutto di saccheggio e spoliazione) e forse, ipotizza questo articolo della FAZ, anche per la particolare sensibilità del suo direttore, Hartwig Fischer, che alla luce della sua provenienza tedesca considera una sua caratteristica quella di fare i conti con il passato.

In ogni caso, si è dimostrato zelante: fin dall’estate ha rimosso il busto di Sloane che campeggiava all’ingresso e, dopo averlo messo al sicuro in una teca di vetro, lo ha posizionato in una sala, dove insieme ad altri oggetti legati al fondatore, viene ricordato il legame con lo sfruttamento e l’epoca coloniale.

È importante, ha aggiunto, «dare una nuova narrazione del nostro passato complicato e a volte molto doloroso», nella quale si potessero sentire rappresentati tutti.

Il secondo passo è stato allestire una serie di mostre e iniziative per mettere in discussione il proprio passato e favorire uno sguardo critico sul colonialismo.

Una di queste è “Empire and Collecting”, una nuova esposizione permanente che comprende 15 manufatti e cerca, con una serie di cartelli, di raccontare da dove vengono e come abbiano fatto ad arrivare al British. È al tempo stesso un tentativo di scuse, una contestualizzazione e una presa di coscienza. Per i critici più severi è un passo apprezzabile, ma non sufficiente. Spesso le spiegazioni sono carenti e scelgono spesso di ignorare il contesto generale di sfruttamento e violenza.

Forse non è un caso. Un’applicazione radicale, per essere convincente dovrebbe costringere il museo a restituire tutto quello che, nel corso dei secoli, è stato acquisito in via non consensuale. Ma è evidente che, se non impossibile, è una operazione molto complicata. Senza contare che in molti casi non sarebbe nemmeno quella più indicata, almeno dal punto di vista della sicurezza e della conservazione.

Per il momento ha già sconfessato il proprio fondatore, riducendo tutta la sua personalità alla categoria di “schiavista” e come inchino allo spirito del tempo può anche bastare.

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