La storia infinitaPerché Regno Unito e Unione europea continueranno a scontrarsi anche dopo la Brexit

«O diventeremo come la Norvegia, o litigheremo per i prossimi vent’anni», spiega Nigel Driffield, professore di International Business all’Università di Warwick. La questione Ue nella politica britannica non è una di quelle che potrà mai essere risolta, ma solo gestita

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Anche se Regno Unito e Unione Europea trovassero un’intesa commerciale post Brexit all’ultimo minuto, quel lieto fine non sarà l’epilogo delle tensioni fra i due blocchi. Sarà al massimo un finale di stagione. Una tregua. Quattro anni di burrasche diplomatiche sono il preludio di un futuro ancora tutto da scrivere: disallineata dagli standard comunitari, come si muoverà Londra? E quali saranno le contromosse di Bruxelles? La Brexit ha conseguenze di lungo periodo, è presto per misurarne l’onda d’urto. 

I prossimi anni saranno il battesimo del fuoco di una Global Britain spacciata dai Brexiteers come una corazzata, ma che ha già cominciato a imbarcare acqua. Ne è convinto anche Nigel Driffield, professore di International Business alla prestigiosa Università di Warwick. Questo ultimo miglio del 2020 ha visto il premier Boris Johnson cambiare parzialmente rotta. Il motivo proviene dall’altro capo di una «relazione speciale» in crisi, con la vittoria di Joe Biden alle presidenziali americane. 

«Due settimane fa è cambiata la politica inglese – spiega Driffield –. Quando la troupe della BBC lo ha avvicinato, presentandosi, Biden ha risposto con un sorriso: “Sono irlandese”. La politica è tutta una questione di simboli. È rilevante il fatto che la prima dichiarazione a un giornalista britannico di un presidente eletto sia stata ricordare le sue origini cattoliche». 

La faglia continua a coincidere con l’Irlanda del Nord. Secondo Reuters, rivenditori e produttori made in UK potrebbero abbandonarla per l’aggravio dei controlli doganali, burocratici e non solo. Le contee attorno a Belfast resteranno nel mercato unico per evitare il ritorno a un confine rigido con la repubblica di Dublino, ancora dipendente dalle esportazioni nell’isola sorella, ma ciò posiziona una frontiera tariffaria in mezzo al mare. Per ogni carico – in media un camion ne trasporta 5 mila – servirà una safety and security declaration con 36 campi da compilare.

«Johnson è stato rieletto sulla base di un patto con l’Ue annunciato come “strepitoso” quando in realtà era peggiore di quello firmato da Theresa May. Ha ceduto sull’Irlanda del Nord durante le trattative, poi ha negato quanto aveva già sottoscritto con lo sciocco Internal Markets Bill. Ma gli Stati Uniti non accetteranno nulla che vada contro gli Accordi del Venerdì Santo: Nancy Pelosi e Biden facevano parte del team che li negoziò sotto Clinton», spiega Driffled.

Secondo l’economista, si profila un accordo leggero, basato su termini minimi. Libero scambio in superficie, frizioni al di sotto. «Solo perché stiamo lasciando l’Ue non significa che non vogliamo una relazione stretta con loro – fa trapelare l’esecutivo inglese a Politico.eu –. Avremo ancora moltissimi valori condivisi e storia. Non c’è assolutamente alcuna strategia di antagonismo». Magari non vigerà la legge del taglione su generi specifici, per esempio importazioni di prosecco come contropartita per le automobili costruite oltremanica, ma il rischio dietro l’angolo è la guerriglia mercantile. «O diventeremo come la Norvegia, o litigheremo per i prossimi vent’anni», conclude Driffield. 

È dello stesso avviso Tim Oliver, professore associato di Diplomacy and International Governance alla Loughborough University di Londra. «La relazione fra Regno Unito e Ue sarà per sempre in subbuglio, proprio com’era quando la Gran Bretagna era all’interno. Si è guadagnata la reputazione di partner scomodo perché c’erano sempre dispute con il resto dell’Unione. Questo disagio ha nascosto quanto altrettanto spesso altre nazioni si siano messe di traverso (e a volte più di noi). La questione europea nella politica britannica non è una di quelle che potrà mai essere risolta, ma solo gestita». 

In un saggio del 2015, Oliver sosteneva con lungimiranza: «Un referendum, da solo, non può risolvere questo problema complesso, che richiederà una gestione politica a lungo termine in un Regno Unito dove sia l’euroscetticismo sia l’Ue sono parti profondamente radicate nella vita nazionale». Oggi l’analista aggiunge: «Quel referendum ha rivelato l’europeismo, che fino a quel momento era stato quasi una parolaccia nella politica inglese. Anche se a lungo l’europeismo non sarà abbastanza forte da sostenere il re-join nell’Unione, se non altro, aiuterà a mantenere viva la questione europea». Una quinta colonna, come controcanto alla propaganda e al populismo. 

La macchina del fango dei tabloid, non ha dubbi Driffield, incenserà qualsiasi concordato partorisca il governo. «Non è la fine, è solo l’inizio. Sono abbastanza vecchio da sapere che i nostri civil servants non negozino accordi dal 1992, o dal 1985 (rispettivamente anno del Trattato di Maastricht e degli Accordi di Schengen, ndr). In ogni caso, ci saranno costi-benefici individuali. La questione che Johnson non ha ancora risolto è che un pezzo della sua maggioranza incasserebbe volentieri il no deal in cambio di questa presunta libertà».

Si può leggere da questa prospettiva l’ultimo rimescolamento a Downing Street, con le dimissioni di Lee Cain, il direttore delle comunicazioni che era un fedelissimo di Boris dai tempi della campagna per il Leave. Una congiura di palazzo. «All’interno dell’inner circle c’è una divisione – racconta il professore –: chi consiglia di tornare indietro e chi dice no deal is fine. Quello che non sappiamo è a quale fazione appartenesse Cain. In più, era in odore di promozione; se ha preso le distanze forse è perché ha visto quanto pessima fosse la situazione». 

Al netto delle guerre di potere ai piani alti – l’ultima ha visto la defenestrazione dell’ideologo della Brexit, Dominic Cummings – il Partito Tory ha subìto una metamorfosi. Il cambio di pelle è tale che i fiancheggiatori del primo ministro si ribellerebbero se lui cercasse di riavvicinarsi all’Europa. «I conservatori si sono liberati di un sacco di remainers – fa notare Driffield –: sono stati sostituiti o cacciati nelle selezioni locali. Per candidarsi alle ultime elezioni, dovevano sottoscrivere di essere d’accordo con il withdrawal agreement». 

Così l’ex ministro degli Esteri si è garantito truppe più disciplinate a Westminster e ha intercettato un’opinione pubblica risentita. Un Paese mutato e diviso. «Mio padre ha votato per la prima volta nel 1953, i Laburisti prendevano il 98% nel suo collegio di una zona mineraria – analizza lo studioso –. Nel 2019, dopo aver eletto per 49 anni lo stesso parlamentare laburista (Dennis Skinner), Bolsover è passata ai conservatori. Se guardi una mappa del Regno Unito, seggio per seggio, puoi avvistare le università: Kent, Essex, East Anglia… tutti puntini rossi, dove ci sono gli studenti, che vedono sparire l’Erasmus e si vedono rubare opportunità proprio mentre il governo celebra la fine della libertà di movimento». 

Per Driffield, una presa di coscienza potrebbe avvenire se le barriere doganali del Regno Unito rallentassero la distribuzione del vaccino anti-coronavirus o di altri farmaci salvavita. «Le persone – sospira – si sveglieranno quando ciò che erano abituate a mangiare sparirà dagli scaffali, quando d’estate i campi saranno deserti senza i lavoratori stagionali da Romania o Bulgaria. Sono arrivato alla conclusione che non basti più dirlo: la gente deve vederlo. Allora ammetterà non d’aver avuto torto, ma d’essere stata presa in giro».   

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