La solitudine di chi capisce i numeri La pandemia è un fenomeno complesso e non si risolve con soluzioni slogan, spiega Paolo Giordano

Secondo lo scrittore italiano che più di altri ha ragionato sul virus, in ogni fase di questa crisi giornalisti e governanti hanno costantemente ridotto tutto ai minimi termini concentrandosi su sotto-problemi specifici, visualizzabili e concreti: le mascherine, i banchi a rotelle, gli sci, i runner. Ma hanno perso così la visione d’insieme

LaPresse

Fin da marzo – “Quando eravamo nella tempesta” – gli articoli di Paolo Giordano sulla pandemia sono stati uno dei pochi appigli a cui aggrapparsi. Perché hanno sempre mostrato un metodo e una coerenza esemplari, specie confrontate a misure che cambiavano di continuo senza criterio: le faq sui congiunti, i cugini di terzo grado, i moduli cartacei sull’autocertificazione. Anche leggere Nel contagio, il suo pamphlet pubblicato da Einaudi, lascia disarmati perché il rigore del ragionamento si scontra immediatamente con la nostra realtà in cui le decisioni – vedi gli spostamenti a Natale – vengono partorite dopo giorni e, nello stesso istante, rimesse in discussione. 

A metà ottobre, hai lanciato un allarme sul Corriere della Sera: scrivevi che il contagio stava correndo di nuovo e che era urgente prendere misure immediate. Dicevi anche che ti sembrava incredibile dover cambiare opinione, ma che la pandemia funziona così: non esiste programmazione. Credi che quell’allarme sia stato recepito in tempo?  
A metà ottobre, quando è stato lanciato l’allarme, era già tardi. Perfino lo stesso allarme era in ritardo. Poi si può discutere se questo grande aumento dei contagi sia dovuto, come dicono molti, all’estate, o, come dicono altri, alla riapertura di tutto, scuole comprese, a inizio settembre. Diciamo che anche lì, avessimo disponibili dei data set abbastanza esaustivi e precisi, forse potremmo persino darci delle risposte più affidabili qualitativamente. Invece, come dall’inizio della crisi in Italia, tutto è affidato al sentimento. Ed è un uno dei grandi problemi, anzi, arrivati a questo punto, è una cosa inaccettabile. Dopodiché, a metà ottobre, era già chiaro che la situazione fosse piuttosto grave. Scrissi un articolo già a Ferragosto, in cui non lanciavo nessun allarme, però dicevo quello che era evidente già allora: “attenzione, perché se cominciamo le scuole con una base di contagi troppo alta, e ci stiamo andando, poi sarà molto difficile gestire la situazione”. È chiaro a tutti che non ci fosse nulla di preveggenza, ma solo consequenzialità delle cose. 

Quindi ci siamo schiantati consapevolmente. 
A ottobre avevamo un numero di contagi altissimo. Ma ci sono stati comunque giorni di ritardo, se non settimane, per un’azione drastica. Di nuovo, per questa mancata – non dico neanche comprensione – ma accettazione della temporalità dell’epidemia cioè che, quando il trend dei positivi è di un certo tipo, non sfuggi al fatto che poi una percentuale di quel numero diventerà ospedalizzazioni e una percentuale diventerà decessi. È solo un ritardo. Quello che mi ha molto colpito di ottobre è stato che, di nuovo, di fronte a quel numero di contagi, si rispondeva da molte parti: sì, ma le ospedalizzazioni sono poche o i morti sono pochi. Come se quella fotografia dell’attimo presente avesse un senso. Invece non ce l’ha, interpretata in questo modo. Ma che questo non sia stato interpretato correttamente e che quindi non si sia agito molto più in fretta di così, e molto più drasticamente subito, è una responsabilità enorme. 

Intanto sono finalmente arrivati i banchi a rotelle. Ne abbiamo discusso per mesi, sia sostenitori che detrattori.
Solo nelle ultime settimane si è parlato di riduzionismo, riferendolo alle persone che tendono a ridimensionare la portata dell’epidemia. In realtà, un riduzionismo, dal punto di vista politico e, soprattutto, mediatico, è stato costantemente in atto in una certa forma: scambiare, sempre, a ogni passo, la complessità del fenomeno con un sotto-sotto-problema specifico, visualizzabile e concreto. A cominciare dalle mascherine, a marzo. Ricorderai che, nel momento in cui eravamo proprio in mezzo al mare e alla tempesta, la conversazione si è concentrata, per giorni e giorni, insistentemente sulle mascherine. Poi ci sono stati i banchi a rotelle, poi c’è stato lo sci e adesso il pranzo di Natale. Per carità, sono tutti elementi specifici che rimandano a problematiche dignitose e importanti, ma la tendenza è quella di ridurre la complessità del fenomeno sempre a un solo aspetto. 

E anche con la scuola è stato fatto così?
Spesso anche per dileggiare gli sforzi di riapertura. Ma il problema delle scuole non è che non sono arrivati i banchi a rotelle. Questo è disonesto intellettualmente. Sono stati altri i problemi, più complessi. Prima di tutto trattare la scuola come se fosse un problema risolvibile tra le otto e l’una, all’interno di un perimetro recintato. E non di trattarla come un tessuto connettivo della nostra società che, quindi, interagisce, innanzitutto, con i trasporti, ma anche con gli orari di lavoro, con le vacanze, con il turismo… è questa la visione complessa. Invece noi di cosa abbiamo parlato? Dei banchi a rotelle. Forse ne hanno parlato troppo dal ministero, ma ne abbiamo parlato anche noi, troppo, dall’altra parte, perché sembrava un punto facile su cui attaccare. 

A me capita di accompagnare mia figlia ogni mattina a scuola e vedo, quotidianamente, bambini e i genitori assembrarsi davanti all’ingresso. Poi, quando scatta il momento di entrare, gli stessi genitori dicono agli stessi bambini di distanziarsi. Come se la regola esistesse per capriccio di qualcuno, non perché abbia un senso.
Sempre questa visione riduzionista in cui è caduto il paese e da cui non riesce a uscire. La scuola è stata emblematica anche per un’altra ragione: perché all’interno del perimetro scolastico, fino ai cancelli, effettivamente era tutto in ordine. Lo sforzo è stato virtuoso. Ma poi, fuori da lì, finiva anche la responsabilità della scuola. Ma questa crisi non si supera se ogni elemento o ogni partecipante non si assume un surplus di responsabilità. E quindi anche la scuola si assume la responsabilità di quello che succede anche a dieci metri o a venti metri dal cancello, perché altrimenti non ne usciamo. 

Ho l’impressione che l’errore sia stato fatto quando abbiamo pensato di poter convivere col virus in attesa di cure e vaccino. I modelli di successo, invece, sono quei paesi che hanno provato a debellarlo. Non solo la Cina. Ma la Nuoza Zelanda o l’Australia o la Corea del Sud.
Non penso che fosse sbagliata l’idea di convivere col virus. Ma è uno slogan che abbiamo smesso di poter usare quando abbiamo dimostrato di non essere in grado di convivere con il virus. Però non è che l’intuizione fosse sbagliata. Continuo a pensare che fosse e che sia possibile. Il virus è sicuramente molto più veloce e pervasivo di quanto noi possiamo fare e questo è un dato di fatto di cui effettivamente dobbiamo prendere atto. Dopodiché ci sarebbe un sistema di risposta molto più flessibile, reattivo ed efficiente, da mettere in piedi. 

Tipo?
A un certo punto, era già fine ottobre, ho scritto un articolo con Alessandro Vespignani, in cui cercavamo semplicemente di fare ordine in una serie di idee. Alcune di quelle cose poi sono state effettivamente intraprese, come la differenziazione per regioni, gli automatismi, i parametri, un po’ più di trasparenza sui dati. Ma è significativo il fatto che ci siamo arrivati alla seconda metà di novembre, perché erano tutte cose che dovevano essere preparate da molto prima. Finito di gestire l’emergenza che non ci lasciava fiato, ad aprile, quello era il momento in cui cominciare a mettere questa infrastruttura in piedi.

Da dove ripartire?
Le tre T. Che fine hanno fatto le tre T? Erano un’idea giusta, però, per qualche motivo, l’abbiamo abbandonata. Pensiamo che siano troppo complesse per noi? Che non siano realizzabili? Allora ditelo. Dite che la strategia non è più quella perché non era sostenibile. E allora ci mettiamo l’anima in pace. Almeno, in un certo senso. Ci convinciamo del fatto che l’unico modo in cui sappiamo reagire a tutto questo è chiudendo o alleggerendo le restrizioni. Ma io penso ancora che ci siano altri modelli possibili. È sbagliato e velleitario pensare di fare come in Cina o come in Corea del Sud o in Nuova Zelanda, perché le strutture socio-culturali e perfino geografiche sono troppo diverse. Non è un paese in cui possiamo pensare, per come siamo messi, di puntare ai contagi zero per poi sigillare il paese. Bisogna intraprendere una strada complessa, ma per mantenersi nella complessità serve un sistema messo a punto. 

Nell’articolo di ottobre di cui parlavamo prima, scrivevi già del Natale. Era già un pensiero.
Se ne parlava già. Innanzitutto, perché il periodo del Natale pesa sull’economia in modo sostanziale. Cancellare o depotenziare il Natale, dal punto di vista economico, ha un impatto maggiore rispetto ad altri periodi. E non si può non tenere in considerazione questa cosa. Poi il Natale ha un portato spirituale ed emotivo: dividere le persone e tenerle separate a Natale è un atto più forte che in qualunque altro momento dell’anno. Avrà delle ripercussioni psicologiche e anche di questo non si può non tenere conto. Ma il Natale ha un peso diverso dal punto di vista, ahimè, epidemiologico. Ed è per questo che se ne parla da così tanto in anticipo. Perché è molto chiaro che la movimentazione di persone e il tipo di aggregazione che, tradizionalmente, si verificano nel periodo di Natale sono superiori a quelli di tutti gli altri periodi dell’anno. Perché sono aggregazioni in luoghi chiusi: le condizioni perfette per la trasmissione. 

E di chi scrive “ci sono xxx morti al giorno e parlate del Natale”?
Sono in disaccordo con chi lo scrive e ne vedo tutti i giorni. È vero, abbiamo mille morti, ma anche il Natale è una dinamica complessa. Non è sintomo automaticamente di superficialità tenere in conto tutto questo. Ma poi c’è sempre questa logica contrappositiva bassa: riuscissimo a uscirne un po’ tutti quanti e ad avere un po’ di compassione verso tante situazioni?

Il Natale per molti è stato anche un orizzonte per dare un senso ai sacrifici che stanno facendo.
Ma è proprio che il Natale presenta delle caratteristiche intrinseche di forte rischio. E questo ci porta a dover fare dei sacrifici anche terribili: non riesco a pensare alle persone che saranno solo o semi-sole in un momento in cui si è tutti, e quest’anno in particolare, più provati. Non me la sento neanche di scagliarmi contro quelli che osano manifestare la propria frustrazione rispetto a questo. È legittimo. Dopodiché, di nuovo, io avrei avuto un atteggiamento diverso: sarò ingenuo però avrei presentato queste cose prima, perché tutto questo era molto chiaro tante settimane fa. Forse sarebbe stato meglio presentare alle persone quello che, più o meno, si sarebbe verificato, lasciando a tutti il tempo di digerire ed elaborare, e di crearsi delle immagini nuove nella testa. Io avrei un po’ più fiducia nella capacità di comprendere delle persone, sempre che uno gli spieghi le cose come si deve. 

Capisco perfettamente perché la politica non lo faccia.
Io forse questo non lo capisco del tutto. 

Intendo dire che sperano di essere rivotati. E non vogliono prendersi la responsabilità di dare le cattive notizie.
Ma ne porti di peggiori dopo. No? 

E gli scienziati perché non fanno questo discorso di verità?
Molti lo fanno e hanno continuato a farlo. Ma anche lì c’è stata una strana polarizzazione, non particolarmente propizia per la scienza in sé che già non gode di ottima reputazione, qui da noi. E c’è stata una polarizzazione anche perché il mezzo, i modi e le modalità comunicative con cui vengono chiamati a parlare questi scienziati spingono verso la polarizzazione. 

A tutti ormai si applica il mi piace o non mi piace.
Perché viviamo in una comunicazione che è basata su questo da tanto tempo ormai. E quindi si sono create le falangi degli oltranzisti seri o quella dei minimizzatori o quella degli outsider, gli onesti… insomma sono vecchie dinamiche comunicative che abbiamo visto riproporsi. Solo che questa volta hanno delle conseguenze dirette sulla nostra vita. 

Hai fatto spesso riferimento alla contraddizione. Alle contraddizioni in cui tutti noi ci siamo trovati.
Ci si può sbagliare e, anzi, non si tratta neanche di sbagliarsi in questo momento, si tratta di restare in contatto con una situazione che evolve. Questo prevede anche la possibilità che tu deva cambiare idea o correggere mira. 

Anche gli scienziati sono stati spesso costretti a contraddirsi, ma loro senza questa ammissione che, forse, li avrebbe resi più credibili. Non sono stati diversi dai politici.
La scienza è tanto politica, non dimentichiamolo. 

Ah, certo, soprattutto in Italia.
E chi non aveva contatti con la politica, prima della pandemia, probabilmente non era attrezzato a sufficienza a gestire una responsabilità comunicativa di queste proporzioni. Perché anche quello è un mestiere. Anche gestire la propria immagine, anche sentirsi improvvisamente noti è un mestiere che richiede anni per saperci fare i conti. Se ti succede da un giorno all’altro i rischi di non governare più del tutto le tue opinioni sono altissimi. 

Io sono molto d’accordo con te sul fatto che dire “ci sono mille morti ma voi…” sia un espediente retorico. Allo stesso tempo è vero che i mille morti di fine novembre hanno lasciato meno sgomenti di quelli di fine marzo. Perché?
Infatti, le due cose non sono in contrapposizione. Coesistono. I mille morti sono una cosa inaccettabile, ma coesiste con il fatto di poter avere una propria piccola sofferenza per il Natale modificato in questo modo drastico. Possono convivere le due cose, senza essere una offensiva verso l’altra. Dopodiché il nostro atteggiamento verso i morti, e ancora più verso i malati, è cambiato drasticamente, ed è il motivo per cui ho scritto il mio ultimo articolo da un ospedale. Prima avevo sempre parlato di tutto questo dal mio studio, leggendo guardando, incrociando informazioni. Ma a un certo punto ho sentito forte la resistenza emotiva, perché proprio i numeri, da guida, sono diventati una specie di potente anestetico alle emozioni. Allora io stesso ho voluto dirmi che invece questa epidemia è una questione di corpi, di persone che stanno male. Che soffocano. Di persone che fanno una morte brutta, una sofferenza atroce, quella di non riuscire a respirare. Persone che restano in casa per giorni prima che qualcuno le vada a visitare e si accorga che vanno portate in ospedale. Che arrivano al pronto soccorso in condizioni di saturazione bassissima, come se stessero annegando. Così ho detto torniamo a ricordarci che c’è la morte e c’è una sofferenza fisica terribile. E che dobbiamo ridare veramente un po’ di sostanza a questi numeri. Se no novecento, ieri ottocento, domani seicento. È spaventoso, no? 

Finale triste.
Per il lieto fine siamo sempre pronti. Ma ancora non c’è il lieto fine. Adesso ci vogliono far credere che il lieto fine sia dietro l’angolo, ma non siamo ancora al lieto fine e faremo meglio a organizzarci di conseguenza. 

L’impressione è che non durerà ancora poco. Però ci sono i vaccini.
Ma non è arrivato. Tu ti sei vaccinato? Arriverà ma fino a quel momento saremo immersi in questa cosa. 

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter