Contro l’opinionismoOggi informarsi è diventato cool, almeno così spera Mia Ceran

La conduttrice di Quelli che il calcio ha lanciato il podcast The Essential e dice che «essere consapevoli di cosa sta succedendo nello Xinjiang per i ragazzi è importante. È una cosa che mi emoziona». E sulla tv: «È il regno dell’abitudine»

Lapresse

Da qualche settimana è tornata in onda con Quelli che il calcio, una delle poche trasmissioni che ancora provano a dare un senso all’intrattenimento in tv e da qualche mese ha un podcast, The Essential, realizzato assieme a Will Media, in cui fa un denso, ma breve racconto delle notizie del giorno, quelle più importanti per lei. Mia Ceran ha già fatto talmente cose nella sua carriera che perfino celebrare quanto sia giovane sembra una cosa da vecchi.

Sto ascoltando il podcast che hai realizzato assieme a Will_Ita, una delle realtà più interessanti dell’informazione su Instagram. I giornalisti sono su Twitter, dove si scannano per pochi lettori quando non tra di loro, e su Facebook. Su Instagram si sentono molto meno come presenza.
È l’unico social che uso e in questo progetto sono incappata perché conoscevo qualcuno dei fondatori di Will. Devo dirti la verità, quando l’ho sentito la prima volta non l’ho capito fino in fondo neppure io. Perché, anche se sono classe ’86, ci sono tante cose in me che sono invecchiate. Ho iniziato a fare questo mestiere a 20 anni con uno stage e non ho mai smesso di lavorare. Ho fatto l’inviata, la conduttrice, l’autrice, tante cose diverse tra loro, ma le ho sempre fatte nell’ancien regime, i miei modelli di riferimento erano sempre persone molto più grandi di me o persone che si muovevano a loro agio in un mondo che aveva tutto il sapore della fine dell’impero

La fine del giornalismo.
Sono arrivata a fare il praticantato al Tg5 nel 2010 e c’era già forte – e c’era ovunque, a prescindere dalle testate – una sensazione costante: quella che un tempo fosse tutto meglio. Che fosse meglio il modo in cui si lavorava, che le trasferte durassero di più, che c’era più tempo per preparare un prodotto, che si lavorasse con una squadra più ampia. E forse è perfino vero. Ma è come se la nostalgia per qualcosa di straordinario e di eccezionale che le persone hanno conosciuto, li avesse resi incapaci di adattarsi a quello che è il nuovo mondo. E non voglio dire che il nuovo mondo sia meglio del vecchio. Ma semplicemente è il nuovo mondo. 

Se il progetto era aspettare che Internet passasse di moda è fallito.
C’è una questione di necessità di adattamento e non di scelta. Poi c’è chi è stato assunto con tutti gli onori, le garanzie e le tutele, gli mancano cinque anni alla pensione, ed è ovvio che si possa permettere un certo atteggiamento. Ma chiunque frequenti il mondo del giornalismo e della televisione e chiunque costantemente nei propri discorsi – come sai – ripete “il pubblico sta invecchiando” o “la televisione è sempre meno rilevante” e “nessuno legge più i giornali” dovrebbe essere obbligato non solo a constatare i fatti, ma anche a tentare una strada diversa. 

Per esempio?
Non so se il modello dei podcast che pure mi sta dando grandi soddisfazioni reggerà molto a lungo, così come il giornalismo fatto sui social, gratis. Perché questo è il problema. Però sentivo che per me era necessario tentare un’altra strada, continuare a dire che ci sono sempre meno spettatori o che la gente non legge più i giornali mi aveva stufato. 

Immagino che il pubblico a cui ti rivolgi sia completamente diverso tra tv e podcast. 
Infatti, c’era un altro tema che mi faceva arrovellare: nessuno dei miei amici guarda quello che faccio, perché nessuno dei miei amici guarda la televisione. E un po’ mi dispiaceva non riuscire a trovare un canale di comunicazione con i miei coetanei, o anche con persone più giovani. Così quando da Will Media mi hanno chiesto: “perché non ci spieghi come funzionano le elezioni americane?” o “perché non ci spieghi quell’articolo dell’Atlantic che parla della pandemia?”, insomma, perché non facessi un bignami per chi queste cose le vorrebbe sapere, ma non ha il tempo per leggerle e magari non parla inglese, mi ci sono buttata. E questa cosa è stata travolgente perché, tra i lettori, non solo c’erano i miei coetanei e un po’ di gente più grande, ma c’erano i diciottenni! E tutta questa gente mi scrive. Non c’è una sola puntata del podcast per la quale non riceva messaggi di persone che mi dicono “ho ascoltato la puntata di oggi” o “ti volevo suggerire” o anche “se ti interessa il tema della biochimica” e perfino “mio zio è il rettore di UC Irvine, se ti serve intervistarlo”. 

Significherà anche più pressione.
Non ho mai avuto così tanta ansia da prestazione come da quando facciamo questa rubrica su Will che si chiama Tools. L’idea alla base è che sono contraria all’opinionismo cioè al fatto che tutti abbiano un’opinione su tutto, e perciò prendo un tema di cui si discute e provo a dare gli strumenti per orientarsi. L’efficacia dei vaccini, per esempio: cosa vuol dire efficacia al 90% o al 60%. Un argomento che io, ovviamente, tratto mutuando il sapere di persone che queste cose le conoscono e ne sono più edotte di me, senza ergermi a epidemiologa. Cito degli studi e delle fonti autorevoli per dire “queste sono le cose che dovete sapere”. Dovresti vedere le risposte: c’è di tutto e sei costretto a vederlo. Ma così sei costretto anche ad avere un secondo tempo rispetto al lavoro. Che è una cosa che hai in misura molto minore in televisione dove la domenica pomeriggio alle 5 sento di aver messo tutto l’impegno che potevo e torno a casa con una certa serenità. Quella cosa lì, invece, è 24 ore su 24. C’è anche la persona aggressiva, ogni tanto, ma è molto più facile trovare la persona che ha voglia di puntualizzare, di correggere, di discutere, anche di dirti – e a volte hanno ragione – che ne sanno più di te su un argomento. È uno scambio costante da cui difficilmente ti puoi sottrarre. 

E rispondi?
Io cerco di rispondere a buona parte dei commenti. Sicuramente a tutti quelli articolati e a tutti quelli di persone che sembrano sapere cosa stanno dicendo. Per me è stata fonte di stupore vedere quante persone nella fascia d’età dai 18 ai 36 abbiano voglia di sentire le notizie e approfondire. Ho capito questa cosa: rispetto a quando avevo vent’anni io, oggi essere informati è cool. Avere una coscienza è cool. Quando avevo vent’anni io, era cool il disimpegno. Essere consapevoli, per esempio, di cosa sta succedendo nello Xinjiang per i ragazzi di oggi è importante. È una cosa che mi emoziona. 

La gerarchia delle tue notizie è molto diversa da quella a cui siamo abituati dalla tv o dai quotidiani.
È la mia piccola ribellione. Quando sono arrivata al Tg5, feci il mio primo colloquio per una sostituzione estiva e il direttore era Clemente Mimun. Quando arriva il mio turno, lui guarda il curriculum ed esclama “ah, quindi hai fatto la Cnn!” e poi “ah, ma parli 5 lingue!”, e poi mi dice “senti, ti do un consiglio: non mi chiedere di andare agli esteri perché sparisci. Se vuoi che ti faccia un regalo vai a fare la palestra in cronaca”. Me lo disse con una schiettezza incredibile. E io che ero “piccola così” accettai, dovevo ancora capire dove fossi di casa. Ma poi, per anni, sono sempre stata in posti dove mi spiegavano che gli esteri non interessano e che la gente non è interessata agli esteri. Me l’hanno detto nei tg, nelle trasmissioni d’approfondimento, forse vale in generale per la televisione. I giornali ci lavorano un po’ di più. Ma, comunque, appena ho avuto uno spazio mio ho deciso di fare di testa mia. E, dai commenti che ricevo, sembra che abbia pagato. Adesso non voglio fare la bulla, ma in pochi mesi i numeri sono triplicati. 

Cosa piace ai ragazzi degli esteri?
Cerco di renderli, in qualche modo, riconducibili a noi, alla nostra vita. Anche nel marcarne la differenza. E poi la pandemia è stata complice. Il fatto che non si possa ignorare ciò che accade dall’altra parte del mondo è ormai chiaro a tutti. Chiaro, un pubblico lo abitui … non mi aspetto che se parlo di Etiopia una volta e basta a qualcuno interessi, ma se dedico due minuti alla settimana all’Etiopia sono convinta che, a fine mese, le persone avranno più familiarità con quanto sta accadendo. Perché è quello che, in fondo, accade anche a me. Più mi occupo di un certo tema, più lo comprendo, più mi appassiono. E poi che le cose siano così lontane da noi… ho i miei dubbi. 

Perché è impossibile portare questo pubblico in tv?
Non penso che sia impossibile. Ma che nessuno ci abbia mai creduto fino in fondo. La televisione sta imparando a gestire dei numeri molto diversi rispetto a quelli che aveva dieci o vent’anni fa. Il che, da un lato, ha dato la possibilità a diversi progetti di nascere anche senza che fossero subito mainstream. Nel momento in cui nasce l’ennesimo talk-show e l’ennesimo talk show fa dei numeri esigui – anche se poi, lo sai, il gioco vale sempre la candela perché costa molto meno dell’intrattenimento di un certo tipo – ma nel momento in cui è accettabile fare il 3% di share o il 4 o il 2… possiamo provare a fare il 2% anche con una cosa diversa?

Perché non si fa?
La televisione è il regno dell’abitudine. Abbiamo visto diventare star delle persone di cui, il giorno in cui sono comparse in televisione, sia i critici che il pubblico pensavano “ma con quella voce” o “con quella faccia” non ce la faranno mai. Ma poi cos’è successo? L’abitudine ha vinto su tutto. Perché una faccia familiare diventa credibile in quel che fa. La televisione è questo processo. Nel bene e nel male. Solo che il problema, a volte, è già solo nel modo in cui ci approcciamo ad esso. “Parlare di esteri”, per esempio, è già una locuzione che allontana. Qualche giorno fa volevo raccontare la storia della lesa maestà in Thailandia. Lì c’è una monarchia presa d’assalto dai giovani perché hanno delle regole che definire vetuste è già un complimento e l’abitudine di sbattere in galera chiunque dica che il re non gli piace. E per raccontare questa storia mi sono imbattuta in un articolo, credo della BBC, in cui venivano intervistati assieme un nonno e suo nipote. E il nonno teneva le parti, ovviamente, della monarchia per una questione di tradizione – e li difendeva in una maniera ostinata come solo gli anziani sanno essere – e il nipote, invece, era l’espressione di come sono i ventenni. Il nipote era molto più vicino ai nostri ventenni che al nonno. Quel dialogo potevi immaginarlo in un tinello italiano. Ragazzi di 25 anni che ascoltano il podcast e hanno i nonni, riescono facilmente a immedesimarsi.

Però non mi fai esempi dalla tv o dai giornali italiani.
Sulla televisione, soprattutto, sono un po’ più rassegnata.

Quando si usa quell’espressione tremenda “telemorenti”?
Non lo penso. Così come non penso che possiamo far credere ai ragazzi o a chi non guarda la televisione per abitudine, che la televisione siano solo quegli spezzoni che vedono su Trash italiano. Ci vorrebbe un moto d’orgoglio.

Ne vedi qualcuno?
Una pezza di Lundini è un prodotto coraggioso, di nicchia, qualitativamente alto e innovativo, che ha un grande successo sui social. Al quale spero che non chiedano conto, almeno per un bel periodo ancora, degli ascolti. Perché quella cosa lì, quando i ragazzi la trovano sui social, fa fare bella figura alla televisione. Ci vorrebbero più cose del genere. Più prodotti diversi. E non conta neanche la collocazione in palinsesto, tanti i ragazzi non guardano la tv all’ora che dici tu. Ma è solo con programmi del genere che dai la sensazione ai più giovani che la tv non sia solo qualcosa che tiene compagnia agli anziani al pomeriggio.

Forse sarebbe anche l’ora di trovare un modo per contare le visualizzazioni su internet nei calcoli dello share. Alcuni programmi si esauriscono con la messa in onda. Clip di Lundini, per riprendere il tuo esempio, hanno vita propria e girano ancora. E servirebbe monetizzarlo, ovviamente.
Ma sono modelli economici che già esistono. E non lo sono solo per quattro influencer con milioni di follower. Ci sono già dei modi. Servirebbe solo prenderla in modo diverso.

La pandemia poteva essere una grande occasione per riavvicinare una fetta di pubblico alla generalista. Ma non sembra sia stata colta. Semmai ha avvicinato il pubblico alle dirette social…
Era come quando ci dicevamo “ne usciremo migliori”: io non ci ho mai creduto. Nel senso che ne usciamo esattamente come siamo. E così anche la televisione. Ne uscirà con i limiti, le forze e le rendite di posizione che ha già. Con alcuni prodotti buoni. Perché, poi, degli ottimi prodotti ci sono. Io guardo Report religiosamente ed è incredibile quanto il loro lavoro avvenga sottotraccia. Toccano e tirano in ballo ministri e poteri di ogni tipo. La loro dovrebbe essere un’operazione bandiera, invece. Allo stesso tempo ci sono ottime forme di intrattenimento fatte da professionisti. Ma la televisione ha dei problemi strutturali. Forse non doveva essere la pandemia l’occasione. Non devi venire da me perché sei rimasto chiuso in casa. Devi venire da me perché ti ho offerto qualcosa di interessante. 

Già che dici che ne usciremo uguali e non peggiori per me è una ventata di ottimismo. L’intrattenimento è trattato ancora peggio dell’informazione.
Ho sempre capito cosa stavo sbagliando o cosa stavamo sbagliando quando facevo programmi di informazione. Era facile identificare l’errore: magari era un errore nello schema narrativo, o contenutistico, oppure era un errore aver caricato troppo sulle opinioni o troppo poco. Da quando faccio anche intrattenimento, insieme a persone che lo fanno da molti più anni di me, faccio molta fatica a capire cosa non ha funzionato quando qualcosa non funziona. 

Prima hai usato la parola mainstream. Credo che il problema, oggi, sia che nulla riesca a diventare davvero mainstream. Ma senza il mainstream è impossibile trovare un terreno comune per la comicità, per esempio. Negli anni ’90, il Mario Giordano di Ubaldo Pantani sarebbe diventato popolare come un personaggio di Corrado Guzzanti o di Mai dire Goal.
Ubaldo Pantani è un fenomeno. E quell’imitazione, come tante altre delle sue, ha centrato il punto. Ma noi facciamo la parodia di quello che guardano le persone di una certa età. E così è difficile che un utente di internet riconosca Mario Giordano. E poi c’è un altro fatto. Che i comici difficilmente possono far ridere più dell’originale. E le cose che faceva Mario Giordano, a un certo punto, sono diventate più assurde di quelle di Ubaldo. C’era una puntata in cui lo imitava facendo entrare i cammelli in studio, e la puntata dopo quello lo faceva per davvero. Così sei costretto a domandarti: ma avrò rilanciato abbastanza? Perché la settimana dopo quello rilanciava ancora di più. È veramente difficile stare al passo con quello che sono disposti a fare in questo momento tanti conduttori. Perché la linea tra informazione e intrattenimento è sempre più sfumata. È un lavoro tremendamente più difficile di quello che dovevano fare trent’anni fa. È difficile capire come far sembrare di essere folli quando già si vira sempre più verso la follia.