Il Partito democratico è diventato il Partito del Silenzio (d’ora in poi PdS), forse per reazione al grande frastuono politico di questa fase, forse per convenienza tattica, forse perché tacere è meglio che sbagliare, forse perché non sa bene cosa dire. O forse per il definitivo prevalere dell’antica attitudine dei cattolici in politica, quel parlare poco e a bassa voce, quel suggerire senza imporre, quel portare pazienza, sorvolare, fingere, accogliere, esserci senza apparire, rinviare a giorni migliori, ricordare tutto senza rimuginare nulla: insomma, gli ingredienti principali della grande minestra democristiana, tutta roba genuina, non troppo saporita ma ottima per la digestione.
Parrebbe dunque che alla modalità tendenzialmente comiziante e popolare della sinistra storica si sia sostituita quella discreta e curiale del centro cattolico, più consona a questi tempi frastornanti.
E dunque nel Partito del Silenzio, che casualmente ha casa al vecchio e riparato Collegio del Nazareno, prevale adesso lo stile felpato e tecnicamente accorto degli ultimi democristiani puri, i Franceschini, i Guerini, i Delrio, stile che incrocia il neo-migliorismo di Enzo Amendola e il pragmatismo iper-politico di Roberto Gualtieri, e che che naturalmente si sposa (ma ci torneremo più avanti) con l’ermetismo timido del Segretario; una politica sottovoce che tiene a freno l’esuberanza giovanile e di sinistra di un Provenzano e quello incline al duello polemico di un Orlando, oltre che dei collaboratori stretti del Segretario che lavorano nell’ombra e che infine relega nel recente passato l’espressionismo televisivo delle battagliere – le chiamavano “erinni” renziane – ora al governo, le Ascani, le Malpezzi, le Morani. In questo quadro resiste la dialettica dolce di Gianni Cuperlo, che tuttavia è un unicum assoluto nel conformismo nazarenico.
Il PdS ha preso dunque a muoversi sott’acqua come un sottomarino mentre sul mare la scialuppa renziana bombarda lo yacht di Giuseppe Conte, mai una parola fuori posto, un’espressione greve, un tono sopra le righe, in fondo vedrai che tutto s’aggiusta: a differenza dei liberali che s’incazzano, da Carlo Calenda a Matteo Renzi, il Partito del Silenzio sceglie piuttosto quelle movenze intellettuali che vengono da lontanissimo – Santa Romana Chiesa – o da lontano – Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti – tagliando i ponti con il casinismo occhettiano e gli arrembaggi del Lothar dalemiani.
Eppure resta qualcosina, nel Partito, di antico, di duro: se la comunicazione è low profile che più low non si può, mai negli ultimi anni è stata così rigidamente centralizzata, poco o nullo spazio ai personalismi, alla molteplicità di voci, tutto passato al setaccio del secondo piano del Nazareno dopo una meticolosa sanificazione dei minimi residui di renzismo: ma tutto piano piano, senza diktat o urlacci, basta uno sguardo, o un messaggino, stai al tuo posto.
E d’altra parte chi andasse oggi al Nazareno si troverebbe come in una cripta silenziosa laddove ai tempi di Renzi pareva un aeroporto, gente che andava e veniva, per non dire dei tempi di Veltroni quando addirittura all’ingresso c’era uno studio televisivo ed era pieno di ragazze e ragazzi. Oggi non c’è nessuno o quasi, corridoi lunghi e deserti tipo “Shining”, stanze chiuse, la splendida terrazza sempre deserta: e non è solo per il Covid, il fatto è che si parla sempre meno, le vecchie lunghe riunioni che hanno fatto la storia materiale della sinistra non si fanno più, il silenzio è rotto solo da qualche bip dei Whatsapp.
Il Segretario preferisce di gran lunga questa modalità alla fisicità della politica, maxime in Renzi ma anche negli altri suoi predecessori – Bersani non era molto “fisico” nella sua caparbia bonarietà? – e per diverse ragioni.
Nicola Zingaretti è una persona timida cui non piace lo sfoggio né il presenzialismo; considera il 99 per cento delle discussioni piuttosto inutili, chiacchiere vacue, specie quelle dettate dai giornalisti, in questo è rimasto molto dalemiano, la sua cerchia, a domanda, risponde quasi sempre “tutte cazzate”, e inoltre Nicola teme di essere frainteso, consapevole di non possedere la capacità comunicativa dei 10 secondi davanti a una telecamera. Poi in alcuni passaggi, come in questi giorni, invero kafkiani, azzardiamo ne non abbia saputo bene cosa dire, meglio tacere, parlino i capigruppo, parli “Dario”, al governo c’è lui mica io.
Si badi che tacere che può anche essere un punto a favore, se il silenzio fosse davvero figlio della modestia e del dubbio. E però il sospetto è che il Partito democratico trasformatosi nel Partito del Silenzio si stia adagiando nella posizione comoda di chi si fa i fatti suoi mentre gli altri si rompono le corna fra di loro, di chi briga nei vicoli della politica romana mentre i compagni abbandonati sul mitico territorio fanno quello che possono, cioè pochissimo.
Ma intanto siamo al governo e hic manebimus optime, va bene così, non c’è nessun motivo di essere nervosi e di alzare la voce, tanto il 20 per cento non ce lo toglie nessuno, possiamo solo crescere, e meno disturbiamo meglio è, la gente è stufa del rumore, è roba da renziani. Le battaglie? Le faremo, le facciamo: ma piano piano, l’importante è saper aspettare l’errore dell’avversario. E le lotte interne? Ci sono ma sono più beghe personali, di ruolo, che contrasti filosofici: non è più il tempo.
Ecco dunque la Sinistra silenziosa, il Partito del Silenzio zingarettiano che non dà fastidio a nessuno, estensione paradossale della forza tranquilla mitterrandiana: forse è questa la quarta via. Come dice quel personaggio di Cechov? «Stiamo zitti che è meglio». Ecco, appunto.