Domenica scorsa, con l’avvio della campagna vaccinale e della somministrazione delle prime 9.750 dosi del vaccino Pfizer-Biontech, hanno preso nuovo abbrivio anche le passerelle televisive dei protagonisti del sistema anti-Covid italiano, a partire dal super-commissario Domenico Arcuri.
Mentre il default sanitario italiano, con i record di mortalità e letalità e un trend di contagi ben poco sensibile al lockdown natalizio apprestato dall’esecutivo, continua a essere mascherato da una fitta rete di prescrizioni in teoria salvifiche e nella pratica inutili, la discussione sulle prospettive della campagna vaccinale, in Italia partita male e in ritardo, è stata da tempo dirottata su problemi reali, ma assai meno rilevanti, come quello dei ritardi nella sperimentazione e nelle autorizzazioni di alcuni vaccini o di una resistenza no-vax di massa tra la popolazione.
Non che questi problemi non esistano: è di ieri la notizia del rinvio da parte dell’Ema dell’autorizzazione del vaccino AstraZeneca o la ripresa del dibattito sull’obbligo vaccinale per i dipendenti pubblici. Ma l’enfasi su di essi sembra sempre più finalizzata a coprire o a giustificare ritardi legati all’organizzazione della campagna di erogazione dei vaccini.
Alla prova dei fatti, infatti, è più che probabile a mancare non saranno i vaccini o i vaccinandi, ma i vaccinatori e a confermare questo sospetto è proprio il cosiddetto Piano Strategico del Governo, che reca nero su bianco una preventiva dichiarazione di fallimento o di impotenza, prevedendo per tutta la durata della campagna vaccinale un numero di vaccinazioni ampiamente inferiore a quelle delle dosi di vaccino che saranno via via disponibili.
Nel primo semestre 2021 avremo (stima del governo) circa 85 milioni di dosi di vaccino, di cui circa 15 a somministrazione singola, sufficienti per circa 50 milioni di persone. Ma nelle dichiarazioni del governo si pensa di raggiungere questo obiettivo tre mesi dopo, a fine settembre 2021, quando nel frattempo si saranno aggiunte altre 54 milioni di dosi, di cui 32 a somministrazione singola, utili per altri 43 milioni di persone. Insomma, si vaccineranno – se tutto va bene! – 50 milioni di italiani solo quando le dosi disponibili avrebbero consentito di vaccinare oltre 90 milioni di persone.
È del tutto evidente che questi ritardi programmati e destinati semmai ad aggravarsi non dipendono dall’eventuale ritardo nella fornitura delle dosi di vaccino spettanti all’Italia, né dalla mancata adesione della popolazione alla campagna vaccinale, perché sono le ipotesi formulate dallo stesso governo nel best case scenario.
Insomma, se i vaccini arrivano, se gli italiani si vaccineranno disciplinatamente e se la macchina pubblica funzionerà come previsto, per la campagna vaccinale anti-Covid ci si metterà nove mesi anziché sei.
Queste e altre “stranezze” sono state evidenziate nell’esame che il Comitato scientifico di +Europa ha fatto del Piano Strategico e che, proprio in concomitanza con l’avvio della campagna vaccinale, domenica 27 dicembre, Emma Bonino, Benedetto Della Vedova e Carlo Alberto Carnevale Maffè hanno presentato alla stampa, denunciando inoltre una serie di opacità che sono da marzo scorso il logico e inevitabile corollario dell’inefficienza della governance anti-Covid.
Nel piano del Governo non sono rese note le modalità di collegamento dei vaccinandi alla rete dei 1500 punti di vaccinazione (chi va, dove e come?), né è stata garantita alcuna accessibilità dei dati della campagna vaccinale. E a mancare è anche una strategia di comunicazione che consenta di persuadere quella quota degli italiani, che i sondaggi danno ancora incerti o contrari.
A questo fine può considerarsi decisamente controproducente lo spettacolo degli storici esponenti del partito no-vax, alla Di Maio, che oggi manca solo che bacino le confezioni della Pfizer-Biontech con lo stesso trasporto con cui baciavano l’ampolla del sangue di San Gennaro, ai tempi della loro guerra contro Big Pharma.
Il limite sistemico del piano del governo coincide purtroppo, ancora una volta, con l’ancoraggio ideologico della maggioranza a un’idea centralistica e statalistica delle politiche pubbliche, in un Paese in cui l’apparato burocratico dello Stato – e non solo quello sanitario – è stato letteralmente schiantato dalla pandemia. D’altra parte, in Italia, l’ideologia dello “statale è meglio” (che trova in questa fase molteplici e sinistre manifestazioni, da Alitalia ad Ilva) è sempre stata tanto più forte, quanto più paradossalmente fondata sull’inefficienza dello Stato e sulla trasformazione dell’apparato pubblico in erogatore di rendite e garante di disuguaglianze.
Tutto quello che il Governo ha fatto per adeguare il sistema pubblico alla «più grande campagna vaccinale della storia» è stato bandire un concorso per l’assunzione di 12.000 infermieri e 3.000 medici, per tamponare le falle della sanità pubblica. E non è neppure il caso di precisare, perché ormai questa è una costante dell’Arcuri style, che il concorso è stato bandito due settimane prima dell’inizio ufficiale della campagna vaccinale e medici e infermieri il 27 dicembre non erano affatto stati assunti, né formati e pronti ai posti di combattimento. Se ne parlerà, con calma, dopo le Feste.
È abbastanza evidente che il successo della campagna vaccinale e l’accorciamento dei tempi previsti dal governo è oggi interamente legata alla possibilità di moltiplicare in forma organizzata i centri di erogazione, ricorrendo in modo organico al convenzionamento di strutture sanitarie private. Non ha nessun senso assumere personale ad hoc, posto che lo si trovi (nel caso degli infermieri, è molto improbabile), quando esiste personale sanitario disponibile, in strutture sanitarie esistenti, che andrebbe semplicemente attivato e reclutato nel sistema di erogazione dei vaccini.
E ha ben poco senso domandarsi se questo costerebbe di meno o di più del mezzo miliardo stanziato per il piano di assunzioni straordinarie, perché i costi per il bilancio pubblico del ritardo della campagna vaccinale sarebbero di ordini di grandezza nettamente superiori (nei dieci mesi pandemici del 2020, l’Italia ha fatto maggior deficit per oltre 100 miliardi di euro).
A tutto questo, si aggiunge una considerazione che i retori della «salute prima di tutto» che abbondano nella fila della maggioranza dovrebbero, in teoria, avere cuore. Quanti morti in più comportano, per ogni milione di dosi, i giorni di ritardo tra il momento in cui saranno disponibili e quello in cui saranno somministrati a un cittadino italiano? C’è qualcuno dei ministri e dei dirigenti pubblici e del sistema sanitario che sapeva calcolare con precisione i cosiddetti «morti da movida» che voglia calcolare e comunicare con approssimazione il potenziale numero di «morti da ritardata vaccinazione»?