Pkn Orlen, la principale compagnia energetica statale polacca, ha acquisito dalla tedesca Verlagsgruppe Passau la proprietà del conglomerato mediatico Polska press, che controlla decine di giornali locali e siti di informazione in Polonia.
Sebbene il ceo di Orlen Daniel Obajtek abbia addotto motivazioni meramente economiche («avremo accesso a 17.4 milioni di lettori, potenziando il nostro servizio vendite e raffinando il nostro sistema di big data»), gli osservatori non hanno molti dubbi su quale sia il senso ultimo di questa mossa: contribuire alla campagna di “ripolonizzazione dei media”, caldeggiata dal governo ultraconservatore guidato dal partito euroscettico, tradizionalista e sciovinista PiS (Prawo i Sprawiedliwość, Diritto e Giustizia).
La ripolonizzazione dell’informazione è un progetto sbandierato da anni da parte della compagine governativa. Che si dichiara, o si finge, incapace di accettare che possano esistere voci critiche del suo operato. Nella visione del governo, chiunque contesti i suoi provvedimenti, o faccia le pulci ai suoi rappresentanti, deve per forza essere sul libro paga di una qualche potenza esterna.
Una logica che il vice-premier Jarosław Gowin aveva spiegato efficacemente intervenendo a una conferenza a Kartuzy prima delle elezioni parlamentari dello scorso anno.
Secondo Gowin, qualunque giornale dovrebbe tenere una linea patriottica. «Se come polacco possedessi un giornale in Francia, mi impegnerei per vendere più copie possibile e ampliare il mio business. Ma se emergesse una divergenza tra Polonia e Francia, come patriota polacco mi assicurerei di presentare il punto di vista polacco sulla questione. Perché dovremmo credere che i tedeschi siano patrioti peggiori di noi? Anche loro sono patrioti, ma patrioti tedeschi. E in caso di scontro tra Germania e Polonia, racconteranno la prospettiva tedesca», aveva riassunto l’esponente ultraconservatore.
Un’interpretazione che lascia poco spazio alla libertà di stampa e al dissenso, annacquando peraltro la differenza tra servizio pubblico e media indipendenti.
Dopo le scorse elezioni presidenziali, vinte ma solo al ballottaggio dall’uscente Andrzej Duda (PiS), Jarosław Kaczyński, l’éminence grise del suo partito, era tornato a invocare il ritorno dei media polacchi in mano polacca, accusando i giornali posseduti da imprenditori stranieri di aver “interferito” nelle elezioni.
Effettivamente, ad oggi il panorama mediatico polacco è ancora relativamente eterogeneo, proprio perché molti dei media privati sono proprietà di aziende tedesche e americane, caratteristica che li rende meno vulnerabili ai ricatti del governo rispetto ai concorrenti.
Ma il trend è chiaro: dall’ascesa al potere del Pis (2015), la Polonia ha perso 44 posizioni nella classifica della libertà di stampa di Reporter senza frontiere. Oggi è al 62° posto: peggio di lei nell’Ue, solo Grecia (65°), Malta (81°) e Ungheria (89°).
Come nota Visegrad insight, uno dei think tank più attenti della regione, in un commento intitolato “Anche in Ungheria è cominciata dalla stampa locale”, il modello ungherese è il prototipo cui si ispirano gli autocrati polacchi. L’entourage del premier Viktor Orbán ha perfezionato lo schema per annichilire la stampa nemica.
L’iniziativa più astuta: tramite una serie di acquisizioni e di fusioni concertate, che hanno fatto passare centinaia di giornali magiari nelle mani di oligarchi vicini a Fidesz, il partito del premier, Budapest è riuscita ad accentrare la maggioranza dei giornali in un unico organo: la Central European Press and Media Foundation, più nota come Kesma. Sulla carta una fondazione privata, di fatto una rivisitazione orbaniana della Pravda sovietica.
Il portale Emerging Europe ha ricostruito e comparato la graduale occupazione del proprio panorama mediatico nazionale da parte dei due esecutivi centro-europei. Tre decenni dopo il crollo del Muro di Berlino, in Europa centrale sta tornando in voga lo zdanovismo.
Nel caso polacco, uno dei metodi più efficaci tra quelli adottati dal governo ultraconservatore per silenziare i giornali dell’opposizione è stato il dirottamento degli investimenti pubblicitari delle compagnie pubbliche – Orlen inclusa – verso media locali, o di infima qualità, purché controllati da lealisti.
Se i quotidiani più solidi, come lo storico Gazeta Wyborcza, sono riusciti a sopperire a questo calo degli introiti pubblicitari, introducendo un meccanismo di paywall, molti tra i quotidiani a tiratura inferiore sono stati costretti a serrare i battenti.
Un’altra tattica ampiamente praticata è stata la proliferazione di cause per diffamazione, reato che secondo l’articolo 212 del codice criminale può essere punito con anche un anno di carcere. Anche quando le corti, spesso molto vicine al potere esecutivo, si pronunciano a favore del giornale incriminato, queste udienze drenano risorse, attenzione e capitali dall’attività giornalistica, in un settore come quello dell’informazione che nemmeno in Polonia vive una fase di vacche grasse.
Se finora il sistema mediatico polacco è riuscito ad assorbire questi urti, la compravendita che ha interessato Polska press potrebbe preannunciare l’inizio di un’offensiva governativa più ambiziosa.
Lateralmente, questa operazione commerciale illustra anche come, semplicemente curando i propri interessi e perseguendo la ricerca del profitto, gli operatori economici tedeschi possano contribuire a puntellare le democrature centro-orientali, neutralizzando il mordente delle politiche di segno opposto perseguite dal proprio governo.
L’indiziato più illustre è l’influente comparto dell’automotive teutonico, che avendo trovato nei paesi del Gruppo Visegrád un vasto bacino di manodopera qualificata a salari bassi, scarsa sindacalizzazione e amministrazioni propense a garantire un trattamento di favore, sconsiglia a Berlino di calcare troppo la mano contro gli esecutivi mitteleuropei dediti allo smantellamento della democrazia liberale.
Per i demagoghi oltrecortina, la simpatia interessata di questi potentati economici (stranieri) è una delle assicurazioni sulla vita più confortanti.